La politica dei dazi voluta dal Presidente degli Usa Donald Trump è finita nel mirino della Corte d'Appello
A Washington c’è un giudice che sembra aver voluto dar ragione al proverbiale mugnaio prussiano: fiducioso che a Berlino un magistrato avrebbe impedito all’imperatore l’esproprio del suo mulino. L’happy end della leggenda resa famosa da Bertolt Brecht – che scelse di vivere nel settore sovietico di Berlino e meritò il Premio Stalin per la pace – pare dunque realizzarsi tre secoli dopo, nella capitale per eccellenza dell’Occidente democratico contro un presidente americano che aspira al Premio Nobel per la pace.
Federico il Grande – nella fiction ambientata nel ‘700 – voleva solo ampliare la sua Mar-a-Lago di Sans Souci, alle porte di Berlino, a spese di un mugnaio di nome Arnold. Nella realtà storica odierna, Donald Trump è stato invece “giustiziato” da una corte d’appello federale su istanza di un cantiniere di nome Victor – importatore di vini anche italiani – che si ritiene danneggiato da un atto di governo di livello massimo: l’imposizione di dazi di raggio planetario sulle importazioni negli Usa.
Ora la Casa Bianca ha in teoria 45 giorni di tempo – la scadenza di una multa per divieto di sosta – per “regolarizzare” l’impostazione dell’intera geopolitica economica degli States.
Al quarto anno della “Terza guerra mondiale a pezzi” l’offensiva commerciale globale di Trump non appare così diversa dal passo più storicamente rilevante del predecessore (dem) Franklin Delano Roosevelt, quando dichiarò guerra a Giappone e Germania, al terzo anno del secondo conflitto planetario. “FDR” – democraticamente rieletto per la quarta volta in piena guerra – mobilitò alle armi 15 milioni di cittadini americani e di essi 400mila persero la vita durante quattro anni di conflitto.
Non risulta che nessun magistrato ordinario abbia mai intimato alla Casa Bianca di sospendere le ostilità e il reclutamento obbligatorio su istanza di qualche cittadino che per evitare la leva lamentasse in tribunale l'”illegalità” della guerra americana al nazismo in Europa e all’imperialismo di Tokyo in Asia-Pacifico.
Se qualcuno ci avesse provato avrebbe rischiato di essere considerato una volenteroso provocatore al soldo dell’Asse, o una spia come il Cremlino riuscì a infiltrarne perfino nei laboratori della bomba atomica, dopo aver arruolato scienziati radicali della grandi università d’Oltre Atlantico.
Ancora un quarto di secolo dopo, Cassius Clay, all’apice della carriera, fu arrestato quando rifiutò la coscrizione per il Vietnam. Il Presidente non era il generale repubblicano Dwight Eisenhower, ma il “dem” Lyndon Johnson, padre del Civil Rights Act. E la guerra – contro l’avanzata comunista in Asia – era stata voluta da John Kennedy.
Dal 1776 sul Presidente Usa – democraticamente eletto – vigila il Congresso, democraticamente eletto. Sulla costituzionalità delle leggi in vigore e sulla loro applicazione da parte dell’Amministrazione vigila la Corte Suprema, composta sulla base di norme costituzionali, con nomine presidenziali convalidate dal Congresso.
Può darsi – anzi vi è più di un segno – che Trump voglia forzare un cambiamento nella democrazia americana e nella leadership globale degli Usa. Per esempio: ha mandato la Guardia Nazionale nelle metropoli dove la sicurezza urbana appare fuori controllo.

Per un’emergenza analoga tutti i maggiori leader Ue – più o meno contrastati dalle rispettive magistrature nazionali o comunitarie – stanno elaborando piani di gestione esterna delle ondate di migranti irregolari, in parte spinti in Europa da paesi islamici mediorientali o dal neo-colonialismo cinese in Africa. Il Presidente Usa è comunque legittimato a spingere il suo “change” fino a che i “checks and balances” previsti dal regime costituzionale statunitense non lo contrastino con strumenti propri. In ultima analisi con il voto: con
verifiche democratiche generali nei fatti a cadenza biennale (la prossima è il midterm 2026).
Nulla a Washington – come altrove in Occidente – è scolpito nella pietra, al di là della natura di stato di diritto liberaldemocratico degli Usa. Ovviamente fino a che “We the people” decideranno così, aggiungendo se necessario emendamenti alla Costituzione (il primo ha sancito nel 1791 la laicità dello Stato e la libertà di pensiero e parola; il ventisettesimo, nel 1992, ha fissato un tetto agli stipendi dei parlamentari). Oppure 250 anni di storia statunitense potrebbero essere spazzati da altre potenze globali – magari non liberaldemocratiche – al termine della terza guerra mondiale o di una quarta.
Non più tardi di ottant’anni fa Roosevelt morì al tredicesimo anno di presidenza ininterrotta (avrebbe potuto rimanere in carica per altri tre). Prese in mano un Paese in pesantissima crisi economica e sociale e ne fece la prima potenza mondiale, sconfiggendo Germania e Giappone e detronizzando Gran Bretagna e Francia da una secolare dominanza eurocentrica. Al momento Trump nel 2028 non potrà essere rieletto, allo scadere dell’ottavo anno di presidenza, anche non consecutivo.
Chi intanto già lo accusa di voler sovraindebitare gli Usa con la geopolitica dei dazi, sembra dimenticare che la sospensione della legge federale che fissa in ogni istante un tetto al debito pubblico è stata votata l’anno scorso dal Congresso su pressante richiesta del Presidente dem Joe Biden. Il quale – a differenza di Trump – voleva continuare a finanziare all’infinito la guerra ucraina contro la Russia e quella di Israele in Medio Oriente.
I magistrati di Washington – a loro volta nel sistema Usa elettivi o condizionati dagli equilibri politici nazionali o locali in sede di nomina – sembrano nel frattempo intestardirsi in un”lawfare” ibrido anti-Trump già condotto in forze dal 2020 in poi. Un’azione che – anche in campo “dem” – è sempre stata discussa nelle premesse per il rischio di inquinamento giudiziario della vita democratica in un Paese quintessenzialmente liberale. Ma, soprattutto, la strategia è rivelata finora fallimentare negli esiti.
Appena sei mesi prima del voto presidenziale il candidato repubblicano era ancora alla sbarra a New York per ipotesi di reato ordinario, accusato da un attorney eletto coi voti della sinistra radicale. L’offensiva è stata sconfitta alle urne da 140 milioni di cittadini statunitensi. Ma sta svaporando oggi anche l’Epsteingate (anche perché oltre a Trump non vi sarebbe estraneo l’ex presidente dem Bill Clinton, marito di Hillary, candidata perdente contro Trump 1).
Ed è rapidamente abortito anche il tentativo di alto profilo politico delle grandi università private di resistere per via giudiziaria alle novità introdotte da Trump nel subordinare i finanziamenti federali a nuovi standard di contrasto all’antisemitismo e di selezione di docenti e studenti.
Harvard – dove ha sede la John Kennedy School of Government e dove si sono laureati i coniugi Obama – è la capofila dei campus che stanno perfezionando “deal” con la Casa Bianca. Non diversamente dall’Ue sui dazi.
Karl Marx – ispiratore di Brecht – spregiava nell’800 i governi liberali come “comitati d’affari della borghesia”. Oggi Trump è il più importante di una schiera di capi di Stato e governo occidentali che additano gli ordini giudiziari nazionali e sovranazionali come corporazioni autoreferenziali e irresponsabili, nei fatti evolute in estremo braccio secolare delle élites globaliste e antipolitiche, divenute egemoni nell’ultimo quarantennio. Forse la “guerra mondiale” in corso è questa, è ancora agli inizi e – come sempre – è impossibile predire chi ne uscirà vincitore.
Fra i primi perdenti strategici pare esserci già l’Onu, l’istituzione di vertice dell’ordine mondiale dopo il 1945 (esemplare che a disconoscerlo sia Israele, che deve la sua nascita a una pronuncia dell’Onu). Ma neppure il Wef di Davos – il più importante foro sussidiario nella globalizzazione post-politica – sembra sentirsi troppo bene.
Può anche darsi che il cantiniere Victor registri a Washington una sua vittoria tattica contro Trump, sfuggita finora a Ursula von der Leyen o a Giorgia Meloni ai tavoli della geopolitica contrattuale (di certo se lo augurano, legittimamente, i vignaioli italiani). Ma l’unica evidenza imprescindibile – la parola ultima di Mario Draghi al Meeting – rimane che con Trump tutti devono imparare a misurarsi (l’Europa molto in fretta). E rifugiarsi nei “moralismi” non sembra la risposta corretta, ha avvertito a Rimini la presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola. Meno che mai covando l’illusione che le castagne bollenti possano essere levate per via giudiziaria dal fuoco della politica e dei mercati.
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