Emmanuel Macron non era molto contento di essere alla Casa Bianca ad ascoltare i desiderata degli Usa sulla guerra in Ucraina
Al summit della Casa Bianca, Emmanuel Macron era seduto alla destra di Donald Trump (a sinistra c’era Giorgia Meloni). Il suo umore era chiaramente il peggiore del tavolo – più di quello di Volodymyr Zelensky – tanto che a fine sessione il Presidente americano si è premurato di lanciare a lui una battuta d’incoraggiamento: sul fatto “pazzesco” che Vladimir Putin in Alaska si fosse detto finalmente aperto alla fine della guerra.
È verosimile che il Presidente francese abbia colto il lato oggettivamente ironico dell’ottimismo di Trump. Macron in tre anni e mezzo di frenetico attivismo non ha cavato un solo ragno geopolitico. Eppure le ha provate tutte: lo stalking telefonico al Cremlino nei primi mesi di guerra ucraina e un pretenzioso viaggio-lampo in Cina; la spola sulla Manica (nel frattempo militarmente proibita ai migranti) per riagganciare Londra mai pentita di Brexit; il lancio di una fumosa “Comunità politica europea” per annacquare l’Ue a trazione tedesca e contrastare la Nato targata Usa; il pre-riconoscimento dello Stato palestinese e perfino il lobbismo per eleggere un Papa francese.
Ha fatto il piazzista del nucleare (civile e militare) made in France dopo essersi fatto eleggere nel 2017 come campione della transizione verde. Ha proclamato che a difendere Kiev dalla Russia avrebbe mandato lui un “esercito europeo” (a comando francese): ma quando la resistenza militare ucraina era sostenuta dall’apparato Usa (sotto la presidenza Biden) e dall’intelligence britannica, quando nessuna “fine della guerra” era in discussione su alcun tavolo.
Ora invece è Trump che vuol stringere sul conflitto ucraino, delineando uno scenario in cui la difesa dei confini orientali europei dovrà essere effettivamente organizzata e finanziata dai Paesi Ue, cioè da una Nato profondamente ristrutturata. Macron, in teoria, dovrebbe essere felice: invece è contrariato, anzitutto dall’aver dovuto rispondere alla convocazione di Washington solo per ascoltare i desiderata americani. Ma soprattutto perché il Presidente torna a Parigi smascherato nell’irrilevanza esterna quando i nodi interni di una crisi politico-finanziaria sempre più grave stanno arrivando al pettine.
Il debole Governo Bayrou – il secondo uscito dopo il caos politico-istituzionale seguito alla doppia sconfitta elettorale dell’Eliseo un anno fa – deve presentare una manovra 2026 con tutte le lacrime e tutto il sangue che Macron ha finora sempre ignorato e nascosto (con l’Ue connivente). E al netto di ogni impegno militare supplementare. Il rischio di dover abbandonare la presidenza prima della scadenza 2027 aumenta.
Tre anni anni fa Macron la spuntò (faticosamente) su Marine Le Pen poche settimane dopo l’aggressione russa all’Ucraina: anche grazie a un’inchiesta sui finanziamenti putiniani al Rassemblement National. Ora Le Pen è temporaneamente non rieleggibile e lo spauracchio Putin potrebbe ancora proteggere il fine mandato di Macron e i suoi tentativi di condizionare la sua successione. Forse – meglio – se la guerra continuasse (cioè se Mosca respingesse o aggirasse il piano Trump), se il riarmo europeo proseguisse (con una gestione finanziaria Ue straordinaria), se quindi il Presidente francese – mohicano di un’altra era geopolitica – potesse continuare ad abusare del semipresidenzialismo di Parigi.
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