Il bazooka fiscale imbracciato dalla Germania sta creando non pochi problemi ai rendimenti dei titoli di stato europei

Questo articolo è stato scritto prima della decisione della Bce. Alla cieca. L’unico elemento di valutazione ex ante era il rendimento del Bund decennale in ulteriore aumento. Dopo i 30 punti base presi nella sola giornata di mercoledì, un balzo intraday che non si registrava dall’asta di titoli di Stato tedeschi andata deserta nel 1990. In pieno caos e incertezza da Riunificazione. Così, giusto per darvi un’idea dell’aria che tira.



E attenzione, il decennale benchmark italiano a 3,98% con lo schermo Bce ancora attivo sul grosso dello stock di reinvestimento non deve proprio lasciare il Tesoro tranquillissimo. Quantomeno in prospettiva. In tal senso, il pezzo alla cieca (per quanto riguarda le decisioni dell’Eurotower, trovate comunque un’analisi validissima in queste pagine) assume quindi una valenza che travalica la mera cronaca e serva a delineare qualche scenario.



Per farlo, partiamo da un elemento di valutazione non finanziario. Ma meramente e totalmente politico. Questo: Germany’s “whatever it takes” spending spree is being orchestrated by Friedrich Merz, who spent the recent campaign arguing against doing any such thing. This isn’t a great advertisement for democracy and there will be real trouble if it goes wrong. Parole di John Authers su Bloomberg. Anch’esse scritte prima che Francoforte si pronunciasse.

Per chi non conosce l’inglese, il sunto è semplice: il bazooka fiscale annunciato da Berlino (che ha fatto volare il rendimento del Bund sulla Luna) è in netta contraddizione con quanto dichiarato in campagna elettorale dal Cancelliere in pectore. Se qualcosa andasse male, il principio stesso di democrazia non ne uscirebbe bene. Perché quanto accaduto al Bund rappresenta un Rubicone di credibilità, prima che una mera minaccia ai modelli di VaR.



Non serve un genio per capire che se per caso quel whatever it takes in salsa teutonica dovesse venire anche solo ridimensionato, scommettere al ribasso contro l’euro diventerebbe moda di massa. Come le sneakers fra i ragazzini. Se poi saltasse del tutto, l’assalto alla diligenza sarebbe alle porte. E George Soros rinverdirebbe i fasti del 1992. Salvo poi girare parte dei proventi ad alcuni partiti nostrani.

Mai scordarsi un dettaglio, poi. Friedrich Merz è uomo Blackrock. E chi storcesse il naso di fronte a certe allusioni, agitando il ditino accusatore del complottismo, meglio che faccia un salto indietro nel tempo. E pensi a chi garantì alla Germania costi energetici strutturalmente bassi grazie ai buoni uffici con Mosca per operare il suo dumping industriale e di export. E soprattutto alla dipendenze di chi quella stessa persona è andata a lavorare, un secondo dopo aver abbandonato la Cancelleria. Si chiama real politik, bellezza! O mondo reale, se preferite.

Veniamo quindi agli scenari. L’Europa per mezzo del suo proxy chiamato Germania sta operando uno stress test di leva fiscale senza precedenti. Più del 2011. Forse più del Covid stesso. E proprio per questo l’ultima cosa che ti auguri è un balzo dei rendimenti obbligazionari come quello registrato mercoledì e proseguito ieri. E se il trend dovesse andare avanti o, peggio, acuirsi e accelerare? Nella peggiore delle ipotesi, la sell off aumenterebbe di intensità, prezzando in anticipo le difficoltà di qualche Stato membro. A quel punto, Paesi con limitato spazio fiscale e alto indebitamento (vi ricorda qualcuno?) potrebbero andare incontro a una price action da bond vigilantes. Tradotto, un cosiddetto rischio di riprezzamento o ridefinizione.

Il nostro spread smetterebbe quindi di godere del maquillage pagato col reinvestimento titoli della Bce. E dovrebbe mostrarsi al mercato nella sua versione acqua e sapone, quella che fa riferimento – ad esempio – al sottostante macro dei nostri conti pubblici e del nostro Pil cronicamente anemico. Insomma, ReArm in realtà diventerebbe l’alternativa politica alla Bce per evitare un 2011 reloaded. Altro che cosacchi a Lisbona o bolscevichi a Cologno Monzese.

Una seconda ipotesi vedrebbe la Germania che rilancia in sede Ue, si infagotta nel mantello del cavaliere bianco e garantisce tutte le liabilities dei Paesi più esposti attraverso il suo rating ancora tripla A per emissioni di eurobond. Di fatto, war bonds, la versione farsesca (e azzardata) dei bond statunitensi per finanziare la Seconda guerra mondiale.

Terza possibilità, lo stress test viene percepito come tale dal mercato e la calma ritorna attraverso uno smobilizzo parziale delle mosse aggressive poste in essere come reazione al Whatever it takes di Berlino. Tradotto, abbiamo scherzato. E si smette di vendere Bund per paura di Weimar. Ipotesi più probabile, a mio avviso. Perché certe strategie di leverage fiscale funzionano se supportate da una sostenibilità di massima dei loro costi di finanziamento. Se questi diventano troppo alti, semplicemente l’esperimento abortisce. Lanciando preventivi segnali di parto problematico come quelli eclatanti di mercoledì.

Ma ricordate le parole di John Authers: in ballo c’è la credibilità politica, prima che gli spread. E agli Usa interessa intaccare questa, più che i rendimenti. Perché ottenuta la prima, i secondi seguono a ruota. Altro che dazi e tariffe.

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