E se la Fed stesse aspettando che a compiere il policy error fosse qualcun altro? Nella fattispecie, magari, la Banca centrale che con la sua forzata ambiguità alimenta da settimane speculazioni su un’uscita dalla politica di tassi negativi già in aprile, spedendo martedì il rendimento del suo titolo a 2 anni al massimo dal 2011? Nemmeno a dirlo, trattasi della Bank of Japan. Due giorni fa alle prese anche con un’inflazione cresciuta più delle attese, quasi il destino stesse complottando per uno stress test epocale che nasca proprio da un sua proverbiale primo passo.
Che primavera ci attende, prima la March madness statunitense e poi la possibile uscita del Giappone dalla Nirp! Ma il mercato pare non interessarsi. Anzi, il settore bancario nipponico sta ricalcando in seno al Topix un trend degno di Nvidia. Ma eccoci al grafico, quello che senza bisogno di troppe parole e intuitivamente fotografa il momento. E tutte le sue pericolose contraddizioni. Di fatto, soprattutto, architrave del dubbio rispetto alla mia ipotesi iniziale di una Fed on hold for longer.
Che gli hedge funds stessero vendendo da settimane titoli tech sui massimi a parco buoi e istituzionali (ovvero, i fondi pensioni del medesimo parco buoi) non stupisce. E non rappresenta certo una novità. Ma che nel pieno di una crisi globale legata al settore immobiliare a uso commerciale statunitense, acquistino contemporaneamente proprio real estate e materiali, fa riflettere. Soprattutto se si pensa che i prestiti a quel comparto sono in mano alle piccole banche regionali che l’11 marzo potrebbero vedersi spegnere il polmone d’acciaio del Btfp. O forse è proprio questa prospettiva che ingolosisce chi specula? Ovvero, dal latino specere, chi guarda. In avanti.
Attenzione poi a quest’altro grafico, il quale ci mostra come il rilassamento delle condizioni finanziarie Usa garantito dal pivot ottobrino della Fed sui tassi – ovvero da un mero annuncio arrivato en passant sul finire dello scorso autunno, cui non sono seguiti fatti ma solo rumors strumentali – sia equivalso già a un taglio dei tassi Usa di 100 punti base.
Perché mai la Fed dovrebbe quindi affrettarsi e correre rischi, avendo oltretutto la scusa a targhe alterne dell’inflazione pronta a tramutarsi in scudo da data-dependency? Jerome Powell è meno fesso di quanto sembri? O, forse, può solo contare su consiglieri migliori di quelli della Bank of Japan?
Ormai è un chicken game fra Banche centrali, la famosa gara fra automobili in cui vince chi si getta dal veicolo in corsa per ultimo, un po’ come il duello di Gioventù bruciata o Footloose (dipende dall’anagrafe cinematografica di chi legge): chi taglia per primo? Chi innesca la miccia? Questione di posizionamento, ovviamente. Una cosa appare certa, fin da ora e restando nell’ambito dell’allegoria di celluloide: a bighellonare nelle vicinanze dell’armeria di Rambo prima che esploda ci sarà certamente quella rabdomante in stato confusionale travestita da Banca centrale nota come Bce. Vuoi vedere che, alla fine, a pagare – via banche tedesche esposte e in continuo aggiornamento di tracollo del prezzo dei propri bond, AT1 in testa – saremo ancora una volta noi europei?
Ormai manca poco. Il problema, adesso, è davvero solo quello di capire da dove arriverà il primo pugno. E tutto sta dipanandosi in fretta. Sempre più in fretta. E per questo, sempre più occultato dalla narrativa mainstream e dall’icona dell’AI. Prendete la giornata di lunedì, davvero un caso di scuola. Quel giorno c’era grande attesa per il risultato della quotidiana asta di reverse repo (Rrp) alla Fed di New York. Per un motivo molto semplice, plasticamente rappresentato da questi altri due grafici: 127 miliardi di Treasury in emissione solo quel giorno, rispettivamente 64 miliardi a 5 anni e 63 a 2 anni. Uno tsunami di debito che necessitava denaro non vincolato per essere acquistato.
Il venerdì precedente il livello del Rrp si era attestato a 520 miliardi. Ma in virtù dell’ennesima macro-vendita in stile Poltrone&Sofà di Janet Yellen, la mattina di lunedì i rumors parlavano a mezza bocca della possibilità di un vero e proprio drenaggio. Addirittura in area 400 miliardi, overnight. Anzi, over-weekend. E invece il risultato ha sorpreso tutti: 524 miliardi. Quattro in più dell’ultimo allottment. Denaro che fa la nanna ben remunerato nella facility overnight della Banca centrale, invece di andarsene in giro. E le aste di quel giorno? Un disastro. Tanto che i rendimenti sono schizzati. Perché quando il Treasury a 5 anni prezza un high yield di 4,320%, qualcosa come 26,5 punti base in più rispetto solo a un mese fa e il titolo a 2 anni segna un 4,691% corrispondente a 32,6 punti base più dell’ultima emissione di gennaio, nessuno si stupisce se il decennale benchmark passa da 4,22% a 4,30% in un amen.
In entrambi i casi, oltretutto, auction tailed per la prima volta da novembre. Ovvero, chi ha portato a casa la carta lo ha fatto pagando meno del massimo raggiunto nel corso dell’asta. Tradotto, domanda deludente. E quando come gli Usa devi fare quotidianamente i conti con una ratio deficit/Pil che vede la prima voce a +509,9 miliardi nel quarto trimestre 2023 a fronte della seconda ferma a +328,7 miliardi, tutto ci si può permettere tranne che turbolenze in asta. Oltretutto, alla vigilia della March madness che entro metà marzo vedrà ufficialmente il reverse repo a zero e il Btfp chiuso. Ovvero, riserve bancarie che pagano i tremori necessari al dispiegamento di centinaia di miliardi di liquidità – domiciliati per quattro anni alla Fed di New York – nell’acquisto di debito e istituti bancari che, di colpo, vedranno venire a mancare 160 miliardi alla settimana di sostegni. Il tutto con Wall Street sui massimi e un Concentration Risk del comparto tech che ha come unico precedente accostabile quello del 1929, come vi ho mostrato nel precedente articolo. E in un’annata elettorale.
Argomenti come questi, ovviamente, creano nei media mainstream la stessa reazione che l’aglio suscita nel Conte Dracula. E in effetti, si può capirlo. Ma quelli settoriali, al netto dei titoli a effetto su Nvidia e del trionfalismo da ventriloqui di Jamie Dimon sulla tenuta da teflon dell’economia statunitense, perché non spiegano su quale filo da trapezista si stia camminando? Forse perché la rete di sicurezza che si trova a terra presenta – non da oggi – buchi che fanno impressione e rispondono al nome di leverage, buybacks e short squeezes, a loro volta gentilmente garantiti dalla Fed? Una cosa posso dirvela con certezza: da queste parti, si continuerà a parlarne. Senza ideologia. Guardando i numeri. Ma anche certe somme lisergiche che li compongono.
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