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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » SPY FINANZA/ La mossa sul petrolio russo che tenta gli Usa

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SPY FINANZA/ La mossa sul petrolio russo che tenta gli Usa

Mauro Bottarelli
Pubblicato 14 Luglio 2025
La Casa Bianca (Ansa)

La Casa Bianca (Ansa)

Trump potrebbe annunciare decisioni cruciali sul petrolio russo. E intanto va monitorata la situazione dei metalli strategici

Davvero l’ultima sortita della Casa Bianca in tema di dazi e tariffe deve preoccuparci? Davvero questa volta Donald Trump andrà fino in fondo? Ne dubito. Ma questo non significa che l’Europa non pagherà un prezzo altissimo alle esigenze Usa. Lo farà. In altro modo. Paradossalmente, più costoso. E soprattutto pericoloso.


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E tutto fa riferimento a un interrogativo: al netto dell’ennesimo voltafaccia sull’Ucraina, i cui costi ricadranno sulla Nato, il major statement sulla Russia che Donald Trump ha promesso per oggi, su cosa si focalizzerà? Stando alle reazioni dei futures e alla price action registrata venerdì, il principale indiziato pare il petrolio. Il Presidente potrebbe infatti essere tentato di anticipare le sanzioni contenute nel Russia Sanctions Bill attualmente al vaglio del Senato, inferendo un colpo (potenziale) enorme all’export di Mosca. E quindi alle sue entrate fiscali, le quali a loro volta rappresentano il bacino di finanziamento della guerra in Ucraina.


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Insomma, la Casa Bianca potrebbe vendere al narrativa dell’atto estremo per forzare una tregua, minacciando di far saltare l’accordo commerciale sul petrolio fra Cina e India e sventolando lo spettro delle già paventate tariffe del 500% per quei Paesi che foraggiano l’export energetico del Cremlino. E i numeri sono di quelli pesanti. Stando a calcoli delle agenzie di intelligence si parla di un taglio potenziale di 1,7 milioni di barili al giorno entro ottobre. Ovvero, l’arco temporale della shipping lag dal porto-hub russo di Ust-Luga all’India.

La possibile reazione dei prezzi? Ecco l’unico effetto collaterale che potrebbe trattenere la Casa Bianca, ancorché si paventi all’orizzonte un duplice asso nella manica anche a questo riguardo. La spare capacity dell’Opec in calo genererebbe uno shock al rialzo come nel 2018, in caso di sanzioni. Ma, appunto, quei tre mesi di tempo prima che Mosca si ritrovi con 1,7-2 milioni di barili al giorno sul groppone e che la Turchia certamente non potrà assorbire in toto, potrebbe tramutarsi nell’ennesimo rinvio all’annuncio. O in waiver a 180 giorni per negoziare, un potere specifico che rientra nel novero di quelli a disposizione del Presidente in difesa degli interessi di sicurezza nazionale.


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Proprio alla luce di questo, la Casa Bianca farebbe affidamento sul suo secondo baluardo: l’effetto blitz. Se anche sarà shock sui prezzi, infatti, si confida che sarà di breve durata. Perché con India e Cina che garantiscono gli acquisti del 70% dell’Urals, il petrolio russo, già oggi a forte sconto, un eventuale smarcamento strategico di New Delhi (in ossequio all’accordo commerciale con Washington, non a caso pervicacemente perseguito per primo) impatterebbe in maniera sufficiente sui numeri attuali. I quali vedono la Russia esportare 7 milioni di barili al giorno, di cui 4.5 milioni solo di greggio e di cui l’India è acquirente per 1,7 milioni. Quindi non molto distante dai 2,2 milioni di Pechino.

Attenzione al petrolio. Perché un eventuale annuncio in tal senso della Casa Bianca spiegherebbe le mosse apparentemente forzate e rischiose dell’Opec con i suoi recenti aumenti di produzione. E svelerebbe il grado di leverage filo-statunitense che l’Arabia Saudita garantisce a Donald Trump. Non a caso, Bibi Netanyahu è corso alla Casa Bianca per cementare il suo ruolo di alleato prediletto nell’area, sventolando addirittura parossistiche candidature al Nobel per la Pace.

E attenzione anche a una seconda mossa americana passata sotto totale silenzio dei media. Con provvedimento assolutamente inusuale, infatti, il Dipartimento della Difesa statunitense la scorsa settimana ha acquisito una quota del 15% del colosso delle materie prime MP Materials. Un qualcosa che pare andare al di là del mero intervento emergenziale e si configura come un primo, decisivo stress test per valutare l’impatto di quello che emerge come un ingresso a gamba tesa del Governo Usa in un comparto strategico dei mercati finanziari. Di oggi e del futuro prossimo.

Mai si era arrivati, infatti, all’acquisizione di una quota così consistente di un soggetto quotato (public company). Anzi, esiste un precedente ma non offre una luce di ottimismo, quantomeno stante le tensioni geopolitiche che si accavallano. Negli anni Quaranta, infatti, la Defense Plant Corporation finanziò direttamente la nascita e lo sviluppo di centinaia di fabbriche per la produzione di armi, veicoli corazzati, aerei e altri assets finalizzati allo sforzo bellico nel Secondo conflitto mondiale. Da allora, qualsiasi altro intervento statale mai aveva previsto l’acquisizione di quote di partecipazione così rilevanti. E strategiche.

Insomma, il pesante grado di dipendenza estera degli Stati Uniti per quanto riguarda i metalli strategici di cui vi parlavo nell’articolo di sabato sta per entrare nella fase di risoluzione. Sia a livello di produzione bellica, sia dual use civile/militare, sia per quanto riguarda il fondamentale comparto AI/tech che tocca il settore di microchip e semiconduttori. Ovvero, la grande battaglia tecnologica che vede contrapposte Usa e Cina nella rincorsa alla conquista del primato sul settore dell’intelligenza artificiale. Con Pechino che, a oggi, detiene il 69% di tutte le terre rare al mondo e quindi ne controlla l’offerta di mercato tramite le esportazioni, Washington si trova costretta a investimenti che debito e deficit non le permetterebbero.

Soltanto una variabile potrebbe – come sempre storicamente accaduto – far passare in secondo piano la prezzatura di rischio del mercato rispetto alla sostenibilità dei conti pubblici. Ovvero, la sicurezza nazionale di fronte a un rischio bellico imminente. Come spiegato nei capitoli precedenti, in atto c’è una globalizzazione della percezione di conflitto permanente. La guerra, vera o minacciata, è l’asset. E le materie prime il suo leverage, il grado di esposizione al rischio. Ma anche al guadagno. Occhio quindi a quei metalli e alla loro price action. Oggi decisa da Pechino. Ma con gli Usa determinati a spezzare quel monopolio. E in tal senso, le spese Nato aumentate a dismisura rappresentano il cavallo di Troia.

E il fatto che il Pentagono abbia chiesto ufficialmente a Giappone e Australia quale sarebbe il loro ruolo in una guerra Usa-Cina legata a Taiwan, come riportato dal Financial Times, non rappresenta certamente un segnale rassicurante. Anzi.

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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