Chi ancora pensa che le sanzioni alla Russia siano non solo giustificate ma anche efficaci per ridimensionare il potere politico garantito al Cremlino dal ricatto energetico presto potrebbe risvegliarsi bruscamente. E dover affrontare una realtà molto somigliante a un mondo nuovo dal quale non si può più sfuggire. In quello che appare il classico effetto collaterale indesiderato (ma decisamente preventivabile, se si utilizzasse il buonsenso e non solo le scorciatoie muscolari), presto i cittadini iraniani potranno utilizzare per le loro transazioni quotidiane la piattaforma di pagamento russa Mir.
Questo sistema di pagamento fu introdotto dalla Banca centrale di Mosca nel 2015, dopo l’applicazione del primo round di sanzioni per l’annessione della Crimea che implicò lo stop della collaborazione di Mastercard e Visa con molte banche russe. Fino a quel momento, i due giganti dei pagamenti elettronici Usa pesavano per il 90% delle transazioni in Russia. Insomma, Mir nacque come scelta emergenziale e divenne, a poco a poco, l’alternativa. E non solo per i cittadini della Federazione russa. A oggi le carte di credito di Mir sono presenti nei portafogli di oltre 100 milioni di clienti e operano in maniera sistematica in molti altri Paesi, fra cui Sud Corea, Vietnam, Turchia, Armenia, Bielorussia, Kazakhistan, Uzbekistan, Kyrghizistan, Abkazia e Ossezia e attualmente è allo studio il loro sbarco a Cuba e negli Emirati Arabi Uniti.
Ovviamente, un pubblico numericamente e qualitativamente ridicolo rispetto a quello dei grandi loghi che fanno capolino dalle fessure dei portafogli occidentali, come appunto Visa, Mastercard o American Express. Ma attenzione, perché se la logica della palla di neve che diviene valanga rotolando a valle deve sempre restare la stella polare di ogni ragionamento prospettico in chiave geopolitica, qui la mossa sottende altre finalità. E spalanca scenari ben più complessi. E intricati.
Primo, l’Iran ha appena sottoposto la domanda per entrare nei Brics. Quindi, lo sbarco di Mir nella Repubblica islamica si sostanzia come ulteriore mattone nel muro ufficialmente entrato in fase di costruzione al Forum del mese scorso a Pechino: la creazione di una valuta legata e garantita da commodities che contrasti lo strapotere benchmark del dollaro nelle transazioni internazionali. In primis, appunto, quelle di materie prime. E sia Iran che Russia sono top player a livello energetico. Il tutto reso ancora più rapido nel suo sviluppo dall’estromissione delle banche russe dal sistema di pagamento globale Swift, in ossequio al regime sanzionatorio.
Secondo, soltanto due giorni fa il ministro dell’Economia iraniano, Ehsan Khandouzi, ha ufficializzato l’estromissione del dollaro statunitense dalla denominazione degli accordi commerciali fra Teheran e Mosca, i quali da oggi verranno denominati unicamente in rubli. Terzo, sempre l’altro giorno le due parti hanno reso noto un accordo di fornitura per componentistica aerospaziale verso la Federazione Russa.
Quarto, se a giugno Teheran ha annunciato la creazione di una tratta commerciale che unisca la Russia all’Iran via India, ecco che alla vigilia del viaggio di Vladimir Putin nella Repubblica islamica del 19 luglio scorso Gazprom ufficializzò un accordo da 40 miliardi di dollari con la NIOC, l’azienda petrolifera statale iraniana. Ed ecco che a complicare il quadro, il 31 luglio le milizie sciite libanesi filo-iraniane di Hezbollah hanno trasmesso un video sull’emittente Al-Manar nel quale minacciavano guerra, se Israele avesse proceduto con le trivellazione nel sito offshore di Karish, un vero e proprio El Dorado per il gas naturale.
E la situazione appare fin d’ora esplosiva, stanti le dinamiche globali legate al gas, tanto che il Dipartimento di Stato Usa ha immediatamente invitato le parti al dialogo, sottolineando come un compromesso sia sempre raggiungibile, se lo si vuole. Contestualmente, però, in Iraq gli Stati Uniti paiono intenti a mettere in pratica una delle specialità della casa: la destabilizzazione. Mentre Joe Biden si travestiva da vendicatore ex post, rivendicando l’uccisione di Al-Zawahiri come suprema vendetta per l’11 settembre, l’intelligence Usa pare particolarmente attiva nel monitoraggio delle proteste in atto in Iraq, dove i seguaci di Moqtada al Sadr hanno assediato il Parlamento per protestare contro la nomina da parte dei partiti filo-iraniani di un candidato premier ostile proprio al fronte sadrista, Mohamed Shia Al-Sudani. A 10 mesi dal voto, l’Iraq è nel pieno di un pericolosissimo stallo politico interno. E questo – seguendo la logica maoista – rappresenta un’opportunità enorme per i cavalieri di ventura del caos globale. Di entrambe gli schieramenti.
Infine, la vera ciliegina sulla torta che rischia di ribaltare completamente gli equilibri. Anche all’interno della Nato e con riferimento alla mediazione turca sul conflitto ucraino. Al netto delle esercitazioni militari che hanno di fatto accerchiato Taiwan dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei, Pechino ha annunciato la fornitura di equipaggiamento militare al Governo siriano di Bashar al-Assad, di fatto il primo atto concreto alle promesse di aiuto alla ricostruzione formalizzate lo scorso anno dal ministro degli Esteri cinesi, Wang Yi, al suo omologo siriano, Faisal Mekdad, in un incontro ufficiale presso l’ambasciata del Dragone a Damasco. E non a caso, la Cina ha optato per una prima trance di aiuti prettamente militare, alla luce del via libera ottenuto dalla Turchia in sede Nato per proseguire l’offensiva a tutto campo contro i curdi, in cambio del via libera all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica.
La Siria riceverà quindi equipaggiamento tecnologicamente avanzato per comunicazioni sul campo dalla Cina, ma quanto fatto filtrare da fonti dell’intelligence israeliana alla stampa parla un’altra lingua: Chiaramente stiamo assistendo solo alla punta dell’iceberg di quella che appare fin da ora un’operazione di assistenza cinese su larga scala per la ricostruzione e il potenziamento dell’esercito siriano dopo la guerra. Dal canto suo, Pechino ha già offerto la propria versione. L’aiuto a Damasco rientrerebbe in una strategia di contrasto al terrorismo internazionale, poiché stando all’intelligence cinese, i separatisti uiguri dell’ETIM starebbero attivamente combattendo al fianco di gruppi jihadisti nella città siriana di Idlib. Come dire, Washington può lanciare guerre globali contro il terrore e noi no? Il tutto in una nazione che ha visto Armata rossa e proprio Hezbollah al fianco dell’esercito regolare per la cacciata dell’Isis e dei suoi addentellati, più o meno presentabili.
Attenzione, perché tutto questo sta già accadendo. Oggi. Domani potremmo quindi svegliarci in un mondo totalmente cambiato. E che renderà le nostre lenti attuali totalmente sfuocate e inadeguate.
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