Nella sua lettera agli investitori, Larry Fink, Ceo di Blackrock, affronta un tema importante, ma dimenticando forse qualcosa
L’ultima lettera agli investitori di Larry Fink, Ceo di Blackrock, ha toccato, tra i diversi temi, anche la sfida dei piani infrastrutturali dei Governi. Il punto di partenza è l’esigenza di molte economie occidentali, inclusa quella europea, di tornare a investire in infrastrutture intese in senso ampio, reti elettriche, porti, data center. Gli stati però hanno accumulato troppo debito e non hanno spazio per finanziare questi investimenti “in proprio”.
Una soluzione, nell’ottica di Fink, è quella di coinvolgere i privati rendendo questi progetti accessibili agli investitori. Questi ultimi, in questo modo, possono beneficiare di una protezione dall’inflazione, data, per esempio, dai pedaggi piuttosto che dalle “bollette”, di una stabilità di risultati e, infine, di buoni ritorni. I ricavi generati da questi progetti sono molto meno sensibili all’andamento economico e spesso gli utenti non hanno alternative.
Il punto di partenza e cioè che gli Stati non abbiano più spazio per fare questi finanziamenti merita però un approfondimento. I livelli di indebitamento degli Stati sono saliti negli ultimi due decenni in due frangenti: la crisi finanziaria del 2008, “il fallimento di Lehman”, e il 2020, “il Covid”. In entrambi i casi le crisi hanno dato il via a performance azionarie e più in generale dei mercati che hanno ecceduto di molto l’andamento dell’economia “reale”.
I mercati finanziari sono stati salvati dalle Banche centrali e dai contribuenti per evitare crolli. Nel 2008 il sistema beneficiava ancora di un mondo in piena globalizzazione e l’inflazione è rimasta confinata ai settori più attigui alle “borse”; questo vale innanzitutto per l’America, mentre l’Europa è passata, a partire dal 2010, per la crisi dei debiti sovrani. Nel 2020, invece, il costo dell’operazione è stato più visibile e l’inflazione è arrivata ai massimi degli ultimi due decenni con i Governi costretti, nella misura in cui potevano, a sussidiare le famiglie anche per attutire la salita dei prezzi.
I debiti pubblici hanno assorbito il costo dei salvataggi finanziari, gli Stati non possono più investire e oggi si discute perfino della sostenibilità del debito pubblico degli Stati Uniti. Il corollario, forse, è che i salvataggi del 2008 e del 2020 non sono più replicabili, se e quando serviranno.
Gli appelli ai risparmi privati, anche in Europa, intanto si moltiplicano e prende forma uno scenario in cui verrà chiesto di investire in settori decisi dai Governi con ritorni che forse non saranno quelli di mercato. Non è ancora chiaro quali settori e con quali incentivi o disincentivi. Sicuramente se i ritorni “fossero di mercato” non servirebbe alcuna imposizione o alcun incentivo particolare.
In un quadro volatile gli asset “infrastrutturali” suscitano interesse e forse promettono una protezione che altri segmenti, soprattutto se decisi dagli Stati, non offrono. C’è però una grande questione a monte e cioè come si siano distribuiti negli ultimi due decenni i costi e i benefici di due operazioni di salvataggio garantite da famiglie e contribuenti. Oggi quei debiti tengono in ostaggio il sistema e obbligano tutti a considerare soluzioni creative.
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