Conviene tenere d’occhio quel che accade intorno all’oro, viste le mosse degli Stati Uniti che non si limitano ai lingotti svizzeri

Mentre l’attenzione del mondo è tutta proiettata verso l’incontro Trump-Putin in programma il 15 agosto in Alaska, permettetemi di andare controcorrente. E consigliarvi di tenere gli occhi ben puntati sull’oro, se volete davvero capire quanto si stia muovendo sottotraccia nell’orizzonte geopolitico.

Il tutto dopo la mossa a sorpresa degli Stati Uniti relativamente alle importazioni di barre da un chilo dalla Svizzera di cui vi ho parlato la scorsa settimana, in un primo tempo classificate dalle US Customs come soggette al dazio del 39% imposto da Washington sui beni elvetici e poi rimaste nel limbo settoriale dalla dichiarazione della Casa Bianca di venerdì sera, quando è stato annunciato un chiarimento sullo status effettivo.



La price action del metallo prezioso ha immediatamente offerto agli organizzatori dello stress test la reazione pavloviana che probabilmente si attendevano e auspicavano, passando su scadenza intraday dal nuovo record di 3.500 dollari l’oncia a un calo nell’arco di pochi minuti a 3.450. Proprio dopo la comunicazione presidenziale.



Al netto della tempistica dii questo chiarimento rispetto a un’eventuale esenzione o regime particolareggiato per quanto riguarda le barre da un chilo, i contesti da tenere sotto osservazione sono almeno due. Il primo più meramente finanziario, il secondo geo-finanziario.

Partiamo dal primo. Apparentemente, una mossa calcolata con conseguenze immediate sul mercato. La conferma della Dogana statunitense del 31 luglio che ha riclassificato come categoria soggetta a tariffa questi lingotti, gli stessi formati accettati dal Comex per la consegna, ha infatti spedito immediatamente i premi per i futures sull’oro di New York sopra del prezzo spot, segnalando che l’offerta disponibile sul mercato statunitense si era bruscamente ridotta.



Le raffinerie svizzere – colte alla sprovvista e in attesa di delucidazioni, casualmente messe subito sul tavolo dell’azzardo dalla Casa Bianca – hanno già comunicato il rallentamento o l’interruzione tout court delle spedizioni, aggravando ulteriormente la prezzatura di mercato. Da qui il record a 3.500 dollari l’oncia.

Trattasi, appunto, di leva finanziaria e posizionamento strategico. Gli Stati Uniti, dopo il nulla di fatto della visita a Washington della Presidente elvetica, paiono voler mettere sotto pressione Berna sul suo settore maggiormente strategico, offrendo al contempo alle raffinerie nazionali un vantaggio diretto sui prezzi nei formati da chilo (o 100 once). Di fatto, un potenziale premio più elevato sui futures di New York, al netto di una dinamica del prezzi spot su base globali che possa rimanere paradossalmente persino stabile.

Limitando di fatto le importazioni di queste tipologie di barre, la mossa aumenta infatti la posta in gioco per i venditori allo scoperto del Comex, la cui capacità di reperirle per la consegna formalmente si complica. Quantomeno a livello di tortuosità e costi delle alternative, fra cui il reperimento di barre da 400 once sul mercato londinese ma con la necessità di fonderle nuovamente in raffinerie statunitensi o comunque non svizzere, al fine di evitare il salasso del 39%.

Insomma, una stretta controllata proprio sui formati dei lingotti che determinano i prezzi dei futures globali e che, depotenziando de facto il ruolo della Svizzera, riafferma quello di New York come arena centrale per la price discovery e il fixing dei prezzi.

Ma attenzione, perché il secondo contesto pare prendere il largo con velocità inaspettata a livello di centralità di analisi. Al netto di Banche centrali che da trimestri di caricano di oro fisico come mezzo di diversificazione delle proprie riserve, una mossa simile pare implicitamente suggerire la volontà di posizionamento Usa in un contesto prodromico di new gold standard globale e parallelo. E in un anno in cui l’oro è già in rialzo a causa delle tensioni macro-economiche e geopolitiche, un punto di strozzatura progettato politicamente a tavolino come questo potrebbe modificare attivamente il dove e il come vengono fissati i prezzi di riferimento mondiale dell’oro.

In tal senso, l’accordo di pace fra Armenia e Azerbaijan che Donald Trump ha benedetto e reso possibile nel fine settimana assume contorni decisamente interessanti. E strategici. Il secondo Paese pompa 600.000 barili di petrolio al giorno e nel 1846 ha tenuto a battesimo il primo meccanismo di trivellazione meccanica, 13 anni prima del tanto sbandierato e rivendicato Titusville statunitense. Inoltre, il guru geopolitico di Ronald Reagan, Zbigniew Brzezinski, definì l’Azerbaijan the cork in the bottle for unlocking the riches in Central Asia e aver piazzato una bandierina a stelle e strisce nell’area crea un cuneo nell’influenza storica di Russia e Turchia.

Ma è l’Armenia a interessarci maggiormente in questo contesto. Povera di idrocarburi, in compenso è ricchissima di rame. E oro. Un hub aureo di fondamentale importanza come mostrano queste immagini tanto da operare da proxy e broker del cosiddetto oro sporco con cui la Russia circumnaviga le sanzioni internazionali.

Nel silenzio e nell’accettazione generale, poiché i dati di interscambio commerciale ci mostrano come proprio l’Armenia garantisca ai Paesi dell’eurozona di poter tranquillamente continuare a operare commercialmente con la Russia sanzionata. E con la Cina. Ma è appunto il dato del gold re-export mostrato plasticamente nel terzo grafico a interessarci maggiormente, soprattutto alla luce di quanto scatenatosi a tempo zero dopo la pubblicazione della notizia relativa al dazio record sull’oro elvetico.

Insomma, l’America pare aver rotto gli indugi relativamente all’importanza strategica globale dell’oro fisico. E in questo contesto, chiaramente la mossa armena appare una sorta di territorial pissing strategico non tanto verso la Russia e i suoi commerci paralleli, quanto verso quel mercato cinese che, tonnellata dopo tonnellata, punta in maniera ormai esplicita a ruolo di secondo mercato del fixing globale.

La nuova corsa all’oro è iniziata. E qui il Klondike è decisamente finanziarizzato. E geopolitico. Con questo carico da novanta, Donald Trump si siederà al tavolo in Alaska.

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