Questo articolo può – anzi, deve – essere letto come la naturale e consequenziale prosecuzione di quello pubblicato ieri. E parte con una domanda che rivolgo a tutti voi: come vi sentite a vivere dentro un quotidiano stress test?
Io comincio ad abituarmi. E mentre il reverse repo ritorna sopra quota 600 miliardi nel suo infinito jo-jo verso fine marzo, ecco che Michael Hsu, l’acting Comptroller of the Currency, tira la bomba a mano nello stagno. Apparentemente senza che nessuno faccia un plissé, tantomeno i titoli bancari Usa. A detta del più autorevole ed establishment dei regolatori statunitensi sarebbe infatti allo studio un nuovo piano di requisiti relativi alla liquidità bancaria di breve termine, al fine di scongiurare bank-run come quelle che affossarono Svb lo scorso marzo. Se infatti attualmente le regole operano una sorta di check-up della banca sotto stress ponendo in 30 giorni il periodo in cui poter/dover rispondere a una crisi di liquidità, ora si starebbe valutando una riforma che accorcerebbe quel lasso di tempo a pochi giorni. Insomma, le banche devono fornire ai regolatori un contingency plan relativo alle fonti di liquidità a breve termine di cui dispongono. Ex ante.
E se lo stesso Michael Hsu suggerisce come una via d’uscita di pronto utilizzo sia la discount window della Fed, è la frase successiva ad aprire qualche interrogativo: You need to be able to get to the weekend and that means being able to convert whatever you have into cash. Linee di credito garantite o svendita di assets? No. Il giochino è apparentemente più raffinato. In compenso, viene da chiedersi perché proprio ora un annuncio di questa portata? Forse perché se realmente l’11 marzo la Fed chiuderà il Btfp, molte banche medio-piccole dovranno fare i conti con uno shortfall settimanale di finanziamento garantito da quel fondo di garanzia? Tradotto, qualcuno con certezza andrà a fare compagnia a Svb?
La risposta è arrivata a stretto giro di posta nella serata di giovedì, quando la Fed ha pubblicato i consueti dati settimanali. Come mostra questo primo grafico, la scorsa settimana l’utilizzo del fondo di sostegno bancario (Btfp) ha stabilito l’ennesimo, nuovo record: 162 miliardi, ben 14,3 in più dai sette giorni precedenti.
Si tratta dell’aumento maggiore proprio dalla crisi che portò al default di Silicon Valley Bank e soprattutto segna quota 74 miliardi di aumento dall’inizio dell’arbitraggio di massa fra tasso del Btfp e quello di deposito applicato alle riserve presso la Banca centrale. Uno spread che oggi è tornato a garantire agli istituti qualcosa come 55 punti base di free money.
E perché allora Michael Hsu ha sentito il bisogno di rendere noto urbi et orbi quel richiamo? Semplice. Lo mostra quest’altro grafico: può la discount window della Fed garantire la copertura di almeno 162 miliardi settimanali, ovvero sostituire il Btfp che apparentemente si vuole chiudere davvero l’11 marzo prossimo come promesso? Arduo. Ma, soprattutto, ecco che quanto annunciato porta con sé anche la fine dell’arbitraggio e della sua free money, stante un tasso primario della discount window al 5.50% contro il 4,85% del Btfp. Fine dell’arbitraggio gentilmente offerto dai contribuenti, più o meno ignari.
In compenso, i regolatori hanno deciso di indorare un pochino la pillola, lasciando intendere una classificazione at par del collaterale che le banche porranno a garanzia, esattamente come accade oggi per il fondo di sostegno. Insomma, apparentemente l’11 marzo potrebbe davvero sostanziarsi come primo, reale banco di prova della resistenza del sistema.
E questo terzo grafico mostra plasticamente la posta in palio: a oggi, il calo nell’utilizzo di controparte del reverse repo alla Fed di New York si è tramutato in un vaso comunicante di liquidità che ha spedito le riserve della Fed ai massimi da due anni. Operando così da sostegno implicito – ed esplicito, vista la serie storica – degli indici azionari.
Dall’11 marzo, nuovi equilibri saranno invece al lavoro. Anche perché, stante il ritmo attuale, entro il 31 marzo il reverse repo sarà a arrivato a 0 di controvalore. Pensate ancora che io sia esagerato, quando sostengo che viviamo in uno stress test quotidiano stile Truman Show che non ammette più errori? E, soprattutto, pensate davvero che la Fed resterà data-dependent da inflazione e disoccupazione e non taglierà i tassi con la motosega già in primavera?
Ma se gli Usa regalano sempre soddisfazioni a chi ormai non riesce più a vivere senza immergersi in un clima da laboratorio del Dottor Frankenstein, ecco che la Cina non vuole essere da meno. Date un’occhiata a questi due grafici.
Il primo ci mostra come nella mattinata di giovedì l’indice CSI 1000 abbia pericolosamente flirtato con quota 5.180 punti, livello superato al ribasso il quale si attiva una palla di neve di derivati da 30 miliardi di yuan (4,2 miliardi di dollari) che fanno riferimento a prodotti legati all’indice. A quel punto, cascata di vendite e market crash. E invece? Invece il secondo grafico ci mostra come, dopo mesi e mesi, sia tornato in azione il National Team. Ovvero, la versione cinese del Plunge Protection Team statunitense. Oltreoceano ci pensano i Primary Dealers a comprare titoli con il badile al fine di sostenere una Wall Street a precipizio, qui le banche a controllo statale. Le quali hanno generato un volume di trade sull’Etf del CSI 300 che ha toccato quota 15,3 miliardi di yuan, il massimo dal 2015. Ovvero dall’anno del crash cinese e della comparsa sul mercato della mano finanziaria invisibile del Pcc. Detto fatto, il CSI 1000 si è rassicurato. E ha fatto bye-bye al livello di knock-in, il detonatore delle margin calls.
E questo non sarebbe un enorme, quotidiano stress test globale? Speriamo che nessuno sbagli una singola mossa, però.
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