La strategia della Casa Bianca sembra essere quello di forzare subito gli obiettivi geopolitici con un costo non insopportabile per Main Street
Il Great Crash nei listini azionari mondiali c’è stato tutto. E i media hanno fatto il loro mestiere quando hanno titolato sui 5 trilioni di dollari bruciati dal solo S&P500 – a un’ora d’aereo dalla Casa Bianca – dopo lo sparo dei dazi Usa al mondo intero. Però un giornalismo accurato farebbe bene ad aggiungere almeno qualche domanda, per quanto rispondervi in tempo reale sia forse al limiti del possibile (alcune questioni sono state comunque poste subito ieri sul Sussidiario).
Chi ha “perso” quel colossale valore finanziario? In altri termini: quali investitori hanno venduto a rotta di collo e quali comprato, rimettendo subito quel rischio nelle loro tasche? Chi è fuggito dal listino lo ha fatto esclusivamente per un effetto-dazi dato per certo in termini di stagflazione e di destabilizzazione globale dell’economia? Quali intermediari (collegati a quali gestori) hanno smistato il Grande Reset nei portafogli istituzionali? Con quale saldo “profitti & perdite” nei loro bilanci?
Appare a rischio di dietrologia complottista anche il rammentare che il principale indice del Nyse (non diversamente dal Ftse-Mib di Milano) aveva toccato nell’ultimo mese il suo massimo di tutti i tempi, mentre il suo valore – l’altra sera – era ancora doppio del minimo-Covid di cinque anni fa. “Quanto grande è la bolla del mercato azionario Usa?”: è un titolo del Financial Times di un mese fa.
Allargando la prospettiva sui mercati finanziari, nelle ore del Grande Crollo dei listini azionari hanno recuperato valore tutti i titoli governativi Usa: con un calo dei rendimenti, cioè del costo sul mercato del debito pubblico Usa. Una parte (non marginale) dei fondi in fuga dall’azionario Usa ha chiaramente cercato rifugio nei Treasury: producendo però così un beneficio oggettivo per l’Amministrazione Trump, che prevedibilmente dovrà affrontare un aumento dell’indebitamento legato anche a una politica annunciata di tagli fiscali.
Allargando la prospettiva al segmento valutario, dall’inizio di febbraio ai minimi della scorsa settimana il dollaro ha ceduto sull’euro dell’8%: una sorta di dazio implicito sull’export europeo negli Usa. Sicuramente doloroso per l’Ue, ma coerente con la visione Maga della Casa Bianca anche prima degli annunci plateali del “Liberation Day”.
Allargando la prospettiva alle materie prime strategiche, il petrolio (Wti) è precipitato da 80 euro al barile di metà gennaio a 62. Una cattiva notizia? Certamente per i produttori Opec (Arabia Saudita e Messico, Iran o Venezuela), ma anche per la Russia o per la Norvegia: sotto diverse e specifiche pressioni geopolitiche da parte di Trump (un po’ di “pain” collaterale colpirà anche le “sorelle” petrolifere Usa, cui tuttavia Trump ha riservato un trattamento ad hoc sul fronte daziario). Il petrolio (relativamente) cheap appare invece una buona notizia per gli automobilisti statunitensi ed europei: naturalmente se la caduta del greggio si tradurrà – come dovrebbe – in una riduzione del prezzo dal benzinaio.
Il prezzo del gas al Ttf, intanto, era salito fin quasi a 60 euro a metà febbraio: oggi è ricaduto a 36, come lo scorso settembre. Sulla carta è un’altra ottima notizia per imprese e famiglie di tutto l’Occidente.
Non c’è dubbio che – allargando ulteriormente la prospettiva alla macroeconomia – la debolezza del prezzo di base dell’energia sia coerente con l’attesa di una frenata dell’economia globale. Ed è questo sicuramente il fronte più rischioso del Grande Azzardo geopolitico sempre più evidente da parte di Trump, con scadenza fra 18 mesi (elezioni midterm negli Usa). Il Presidente non è certamente ignaro del costo macroeconomico della sua offensiva dei dazi, squisitamente geopolitica. Di cui peraltro non va dimenticata una delle premessa-obiettivo: la stabilizzazione di un pianeta lasciato nel caos bellico – post-Covid – dall’Amministrazione Biden.
La “guerra dei dazi” comporta certamente il rischio di stagnazione se non di recessione: anche negli Usa (lo stesso Presidente vi ha accennato). È invece meno sicuro che essa ridia fuoco all’inflazione (gli ultimi dati confermano l’incertezza, benché i banchieri centrali non sbaglino a essere preoccupati). L’indice dei prezzi è stato il parametro macro su cui si sono per buona parte decise le ultime presidenziali americane.
Sono queste le variabili dell’approccio “shock and awe” della Casa Bianca di Trump: forzare nei primi cento, duecento, trecento giorni gli obiettivi geopolitici (e il regolamento dei conti con l’Ue è uno di questi) con un costo non insopportabile per Main Street negli Usa (la “crisi delle uova” pare già superata, senza peraltro essere stata spiegata del tutto).
I banchieri di Wall Street – con cui il vecchio immobiliarista di Manhattan ha sempre avuto rapporti alterni di odio e amore – nell’immediato se la vedranno intanto loro con i ricchi globali (“high worth net individuals” in gergo politicamente corretto) che hanno affidato i loro patrimoni miliardari, frutto di redditi trecento, cinquecento o mille volte superiori a quelli dell’abitante medio degli Stati Uniti.
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