TAGLIO IVA/ “O si dimezza, o non incide: ma i conti dicono che non si può fare”
Che l’intervento sull’Iva annunciato da Conte abbia poco appeal lo dimostra un semplice calcolo che andava fatto prima di avanzare la proposta

Il Presidente del Consiglio Conte, nell’annunciare la chiusura degli Stati Generali fortemente voluti per rifare l’Italia, ha dichiarato che sta valutando una riduzione dell’Iva. I partiti politici, più o meno tutti, hanno concordato che il taglio dell’Iva proposto non è una priorità. Ciascuno ha motivato il proprio dissenso in maniera diversa, dal non è una priorità a ragioni più “irritanti”, ovvero che ne risentirebbe il gettito.
L’intervento più autorevole è sicuramente quello del Governatore della Banca d’Italia, che ha sottolineato e confermato che per operare in tema di fisco «serve una visione complessiva» e che occorre intervenire «non imposta per imposta». Il Governatore Visco, per giustificare la sua visione, ha aggiunto che «è una vecchia storia» ma attuale, il tema della «grande dimensione dell’evasione, dell’illegalità e della criminalità organizzata». Questo «si trasforma in un carico fiscale molto pesante per chi le tasse le paga».
È evidente che si scontrano due visioni, una, quella di Banca d’Italia, di lungo periodo, e l’altra, quella del Governo, di breve periodo. La proposta dell’esecutivo, che passa per una riduzione delle aliquote Iva, ha il pregio di essere coerente con gli interventi sin qui adottati che hanno in comune la mancanza di una visione strategica. Il rischio dell’agire in questo modo è che prima o poi si dovrà dare ragione a Briatore il quale auspica che il Governo vada in vacanza.
Chi ha proposto al Premier Conte la riduzione delle aliquote Iva con ogni probabilità non ha ben chiaro come funziona l’Imposta sul valore aggiunto. Nel sistema italiano la applicazione tra operatori economici, fanno eccezione i casi di indetraibilità dell’Iva, è sostanzialmente neutra. L’imprenditore o il professionista versano all’Erario, infatti, la differenza tra l’imposta che incassano e quella che pagano sugli acquisti inerenti la propria attività. Ne consegue in linea generale che, salvo i casi di indetraibilità dell’Iva o altri casi specifici, un’aliquota vale l’altra.
Che l’intervento proposto sull’Iva abbia poco appeal lo dimostra un semplice calcolo che andava fatto prima di avanzare la proposta. Con l’attuale sistema un vero vantaggio per il consumatore finale lo si otterrebbe solo con il dimezzamento delle aliquote Iva. Per capirci, un paio di scarpe che si trova in negozio a 100 euro con un dimezzamento dell’Iva potrebbe arrivare a costare 90 euro. Se è questo il senso della proposta, allora la discussione deve andare avanti. Nessun vantaggio concreto qualora, invece, si voglia adottare un leggero taglio delle aliquote. Un lieve ritocco delle aliquote Iva, infatti, comporterebbe la necessità di operare aggiornamenti dei software aziendali e professionali, una rivisitazione di taluni modelli dichiarativi già in uso e così via. Tutto ciò si tradurrebbe in un incremento dei costi per le aziende del quale non si sente il bisogno. Si conseguirebbe un solo risultato: irritare ancora di più gli operatori economici.
È evidente, quindi, che bisogna abbandonare questa strada e percorrere quella proposta dal Governatore Visco. Una riforma organica, ad esempio, potrebbe prevedere un maggiore ricorso al reverse charge oggi in uso in taluni settori, edilizio – energetico – commercio di prodotti elettronici, oltre che negli scambi intracomunitari, che andrebbe a incidere, operando una semplificazione, sugli adempimenti delle aziende.
È auspicabile, quindi, un intervento complessivo che consenta di ridurre il peso della burocrazia in capo alle aziende, che riduca il rischio dell’evasione e favorisca un maggiore controllo del gettito che invece i consumatori finali pagano con i loro acquisti. Così operando si sposterebbe il peso dell’Iva sui consumi attuando un maggiore controllo del gettito favorendo, in futuro, una riduzione delle aliquote applicate incentivando i consumi.
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