La Bce ieri ha tagliato ancora i tassi. Il che è positivo. Ma non si può dire altrettanto del quadro esplicativo enunciato nella conferenza stampa

Il Consiglio direttivo della Bce ha deciso ieri di ridurre di ulteriori 25 punti base i tre tassi di interesse di riferimento. Il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali, quello che un tempo in Italia chiamavamo tasso di sconto, scende pertanto al 2,65%, quasi due punti in meno rispetto al massimo del 4,5% raggiunto a settembre del 2023 e mantenuto sino alla metà del 2024. Il tasso di interesse sui depositi delle banche ordinarie presso la banca centrale, da diversi mesi considerato il tasso più importante, scende invece al 2,5%, mentre il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale al 2,90%.



Quella di ieri è la sesta riduzione consecutiva nell’arco di dieci mesi ed è una decisione indubbiamente positiva e apprezzabile, mentre non si può dire altrettanto del quadro esplicativo che è stato enunciato nella conferenza stampa del Governatore e sintetizzato nel comunicato stampa. Esso conserva infatti il carattere alquanto criptico dei precedenti, confermando la posizione attendista della Bce sulle prospettive dell’inflazione e il sostanziale rifiuto a esprimere previsioni nette, in tal modo rinunciando anche a incidere sulle aspettative di crescita dei prezzi che così grande ruolo hanno avuto in passato nel determinare il fenomeno.



Recita infatti il comunicato: “Il processo disinflazionistico è ben avviato. L’andamento dell’inflazione ha continuato a rispecchiare pressoché le attese dei nostri esperti e le ultime proiezioni sono strettamente in linea con le prospettive di inflazione precedenti”. Bene dunque, tuttavia le previsioni degli esperti della Bce, che erano evidentemente per un proseguimento del ribasso del fenomeno, non sono mai state rese note ex ante, mentre invece i comunicati ufficiali continuavano a sostenere che la Bce avrebbe preso le sue decisioni dopo aver osservato le dinamiche effettive dei prezzi, il famoso “approccio guidato dai dati”, senza indicare la direzione che essa si attendeva per i medesimi.



Una seconda critica che si può rivolgere alla posizione della Bce è il fatto di fare riferimento da diverso tempo al tasso medio annuo atteso dell’inflazione, che è molto meno significativo del tendenziale, il quale a sua volta è meno significativo di un tasso di più breve periodo, ad esempio di variazione trimestrale, opportunamente destagionalizzato e annualizzato. Inoltre, di dedicare eccessiva attenzione ai decimali, se essi si collocano al di sopra del 2% che è lo storico tasso obiettivo perseguito.

Prosegue infatti così il comunicato: “Gli esperti indicano ora che l’inflazione complessiva si collocherebbe in media al 2,3% nel 2025, all’1,9% nel 2026 e al 2,0% nel 2027”. Si tratta di valori pienamente in linea con l’obiettivo della politica monetaria di un’inflazione al 2% e il piccolo scarto per l’anno in corso risulta completamente irrilevante.

Non ha senso pertanto sostenere che: “Le misure dell’inflazione di fondo (al netto degli energetici e degli alimentari freschi) suggeriscono perlopiù che l’inflazione si attesterà stabilmente intorno all’obiettivo del Consiglio direttivo del 2% a medio termine“. Infatti, è già da un po’ “intorno all’obiettivo”, è un fatto storico e attuale, non prospettico.

E non è neppure condivisibile quest’altra affermazione, già utilizzata dalla Bce in precedenti occasioni: “L’inflazione interna resta elevata, principalmente perché salari e prezzi in determinati settori si stanno ancora adeguando al passato incremento dell’inflazione con considerevole ritardo. La crescita delle retribuzioni si sta però moderando secondo le attese e i profitti ne stanno parzialmente attenuando l’impatto sull’inflazione”.

Qui le alternative possibili sono solo due:

– se i miglioramenti salariali riflettono il recupero di inflazione passata, che ha inizialmente avvantaggiato i profitti e solo ora si trasferisce ai salari, essa non è a sua volta inflattiva, si tratta solo di una redistribuzione di quote tra profitti e salari; non vi è pertanto alcuna spirale salari-prezzi;

– affinché invece la crescita salariale sia davvero inflattiva occorre che le condizioni del mercato del lavoro lo consentano, dunque una tendenza alla scarsità dell’offerta di manodopera rispetto alla domanda delle imprese, quale probabile conseguenza di una buona dinamica della domanda di beni; dovremmo in sostanza trovarci in una fase nettamente espansiva del ciclo economico e non invece, come in effetti siamo, in un’economia europea praticamente ferma.

Com’è possibile che in un’economia stagnante vi possa essere inflazione salariale da domanda? Questo sarebbe stato il quesito da porre nella conferenza stampa di ieri del Governatore. Ma in realtà la Bce vi ha risposto spontaneamente sostenendo che: “L’economia fronteggia perduranti difficoltà e i nostri esperti hanno nuovamente corretto al ribasso le proiezioni di crescita: allo 0,9% per il 2025, all’1,2% per il 2026 e all’1,3% per il 2027. Le revisioni al ribasso per il 2025 e il 2026 riflettono la diminuzione delle esportazioni e la continua debolezza degli investimenti, in parte a seguito dell’elevata incertezza sulle politiche commerciali e su quelle economiche più in generale”.

In sostanza la crescita economica non c’è, ma l’inflazione da essa prodotta invece sì.

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