La Meloni ha sentito Abu Mazen, presidente dell’ANP, dichiarando preoccupazione per l’escalation di Israele. Il perché di una telefonata inattesa

Abu Mazen e Giorgia Meloni sì sono sentiti. La premier ha chiamato l’anziano Abu Abbas in un momento critico della vicenda di Gaza. Israele si appresta ad occupare nuovamente la Striscia, come vent’anni fa. Ma per fare cosa?

La tesi di Netanyahu è che Hamas deve sparire. Semplicemente. Un volta eradicata quella malapianta, questa la tesi, gli israeliani lascerebbero quelle terre ad un governo civile sotto la loro tutela militare.



Per altri, la missione di Netanyahu è dare concretezza alla visione radicale e messianica della destra israeliana creando un Israele dal Sinai a  Damasco e oltre. Facendo fuori, in qualche modo, qualche milione di persone da quelle terre. Costrette ad andarsene, nella migliore delle ipotesi.

E cosa fa la Meloni? Chiama un vecchio socialista rivoluzionario, capo delle sparute pattuglie più moderate. Per dirsi cosa? Di certo non una condanna senza se e senza ma dell’azione israeliana. Per fare questo era sufficiente dichiararlo pubblicamente, al pari di altri.



Forse il tentativo è riprendere il filo di un ragionamento e di una relazione che storicamente il nostro Paese ha avuto con l’ANP e sostenere il suo debolissimo leader in virtù di una visione politica convergente con gli interessi di Israele, occidentali e di parte del mondo arabo. Sconfiggere Hamas, dopo Hezbollah e Iran, e rimettere i sunniti moderati al comando.

Se questo è l’intento del governo di Israele, la domanda successiva che la Meloni si sarà dovuta porre è a quale prezzo sia accettabile la sconfitta di Hamas. I morti a migliaia, la fame, le violenze sono ormai un corollario alla scelta politica di fondo fatta e le conseguenze ricadranno su Netanyahu e sui suoi.



Benjamin Netanyahu davanti alle rovine causate da uno strike iraniano (Ansa)

Ma l’obbiettivo politico della Meloni, quale possa essere, non è chiaro al momento. Andrà ulteriormente specificato. In un conflitto del genere le linee sono troppo marcate per stare sul confine. Un millimetro troppo in là ed un proiettile israeliano ti fulmina, uno troppo in qua ed il giudizio di inumana freddezza della politica di fronte ai morti ti macchia.

Finora la presidente del Consiglio aveva preferito tacere, per fiutare l’evolversi degli eventi. Ma così il rischio della marginalità era dietro l’angolo. Ora che si è presa la briga di metterci le mani, indietro non si torna. Le ipotesi sono due. O la chiamata ad Abu Mazen è un atto politico che la sposta “a sinistra”, con una ferma condanna degli atti e delle intenzioni di Israele, o – meno ingenuamente – un gioco rischioso di appoggio ai “palestinesi buoni” a cui offrire la sconfitta di Hamas.

Che sia poi per loro un obiettivo politico di tale importanza da giustificare un’operazione militare e politica spregiudicata e fredda come quella programmata, è tutto da vedere.

Vale la pena esporsi e muoversi in questo contesto o sarebbe stato meglio continuare a far finta di nulla?

Forse ha prevalso la preoccupazione di diventare storicamente corresponsabili di un atto militare e politico di portata enorme anche stando in silenzio. Perciò la prima mossa, comporre il numero di Abu Mazen, rompe uno schema e di fatto ci schiera. Con i palestinesi ma senza andare contro Israele.

Sul nostro neutralismo storico, dalla prima alla seconda guerra mondiale, si sarebbe tanto da dire. Ci mettemmo in entrambi casi anni a “capire” con chi andare. Ma ogni volta che abbiamo deciso la linea da solcare abbiamo poi pagato un prezzo enorme. Speriamo non sia questa la volta. E che una telefonata non ci costi troppo. Come le interurbane di un tempo. Solo che stavolta nessuno pagherà la bolletta per noi, come quando eravamo ragazzi.

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