La verità americana sull’attacco all’Iran è sempre più dubbia, mentre Netanyahu prepara già una nuova guerra. Si cerca una soluzione negoziale per Gaza

Ha vinto Trump. Ha vinto Netanyahu. Ha vinto Khamenei. Hanno vinto tutti, e cioè non ha vinto nessuno. Grandi parole, grandi enfasi, grandi progetti, tante, troppe parole alle quali ormai nessuno dà credito, assuefatti alle propagande di guerra e di leadership, capaci di distorcere la realtà secondo i fini e gli umori.



L’ha ben insegnato “the Donald”, con i suoi virtuosismi sfacciati, le retoriche altisonanti, e i repentini dietrofront, le minacce e i rabbonimenti, un vergognoso bastone-carota indegno della serietà che si vorrebbe nelle stanze dei bottoni.

Bomba o non bomba, super GBU-57 buster bunker o no (sembra che gli Usa ne stiano preparando già una nuova versione, ancora più “performante”, una massive ordnance penetrator “5.0”, visto che quelle a disposizione non arrivano oltre i 50-60 metri di profondità, e quindi non sono nemmeno state utilizzate contro il sito iraniano di Isfahan, scavato più in giù, dove sarebbe stoccato il 60% dell’uranio arricchito, come ha riferito il generale Dan Caine), l’Iran proclama di aver saputo proteggere le sue scorte di plutonio (si parla di 400 chili) già parzialmente arricchito, trasferendolo dall’impianto di Fordow in altre località.



Ad oggi, la tregua sine die sbandierata da Trump come una sua storica conquista, registra le medesime minacce iraniane contro lo Stato israeliano della pre guerra dei 12 giorni: al funerale show delle vittime delle bombe americane e degli strike di Tel Aviv, lungo una Azizi Street affollata da una massa di sostenitori del regime (spontanei ma soprattutto coscritti), l’altro giorno sono risuonati i soliti “Morte a Israele, morte al Grande Satana”.

Ma soprattutto gli ayatollah tuonano che l’Iran non si arrenderà mai, e vietano all’IAEA (l’agenzia ONU per l’energia atomica) qualsiasi visita ai propri impianti. Di fatto, in questa surreale post-guerra si resta aggrappati all’incertezza sui danni subiti dai siti e dal programma nucleare iraniano: davvero si è ottenuto uno stop, e quanto potrà durare?



Sembra insomma di essere di fronte ad un ennesimo semilavorato americano, come quelli che le loro guerre hanno quasi sempre creato in giro per il mondo: Iraq, Libia, Afghanistan, ma ancora più indietro Corea e Vietnam. Semilavorati che hanno lasciato situazioni almeno confuse e tanti materiali di risulta: guerre civili, divisioni, macerie, miserie, rabbia e nuove leve disposte alla vendetta.

Politicamente, solo paraventi dietro i quali muovono gli stessi attori di prima, o loro succedanei. Sono esattamente i semilavorati, le guerre incompiute che Netanyahu vorrebbe scongiurare, ed infatti le sue campagne per annullare le minacce di Hamas a Gaza (dove si è arrivati al 633esimo giorno di guerra) e di Hezbollah in Libano continuano, e non è detto che non stia programmando nuovi strike in Iran.

Il ministro della Difesa Katz ha detto di aver ordinato all’IDF di preparare “un piano contro l’Iran” che prevede il mantenimento della supremazia aerea, la prevenzione dello sviluppo nucleare e della produzione missilistica e il contrasto del sostegno dell’Iran al terrore.

Nel frattempo, il quotidiano israeliano d’opposizione Haaretz riferisce che un soldato delle IDF (le forze armate di Tel Aviv) avrebbe detto: ”Gaza è un campo di sterminio. Dove ero di stanza, tra una e cinque persone venivano uccise ogni giorno. Sono trattati come una forza ostile – nessuna misura di controllo della folla, nessun gas lacrimogeno – solo fuoco vivo con tutto ciò che è immaginabile: mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai… Non sono a conoscenza di un solo caso di fuoco di ritorno. Non c’è nemico, non c’è arma”.

E un ufficiale dell’IDF in servizio nell’area avrebbe riferito: “Una brigata di combattimento non ha gli strumenti per gestire una popolazione civile in una zona di guerra. Sparare mortai per tenere lontani gli affamati non è né professionale né umano”.

Nel caos totale che regna in tutta la Striscia, ognuno si sente legittimato a dire qualsiasi cosa e a dare la sua lettura. Non esistono report indipendenti o affidabili. Di certo è che buona parte di Gaza è diventata una no man’s land, territorio in balia di terroristi, militari e bande locali. L’altro giorno sono scoppiati violenti scontri a fuoco tra le forze di Hamas e i membri armati del clan Barbakh vicino all’ospedale Nasser nel Khan Yunis a sud di Gaza, causando diverse vittime. Hamas afferma che individui del clan Barbakh sono stati coinvolti nel saccheggio di camion di aiuti umanitari, un’accusa che la famiglia nega.

In questo drammatico magma, l’inarrestabile inviato speciale USA in Medio Oriente Steve Witkoff ha espresso la volontà di modificare parti di una proposta americana per un cessate il fuoco a Gaza, come riporta l’agenzia di stampa del Qatar Al-Araby Al-Jadeed. E funzionari dell’amministrazione Trump hanno esortato Israele a inviare negoziatori al Cairo la prossima settimana per colloqui con Hamas.

Resta da decifrare la postura israeliana in proposito, anche perché la solidità del governo Netanyahu non sembra granitica. “Nonostante i risultati impressionanti della guerra in Iran – scrive l’analista Amos Harel –, lo sforzo di inquadrarli per scopi politici e il leggero spostamento di questa settimana verso il Likud e i suoi alleati, i sondaggi continuano a deludere Benjamin Netanyahu. Forse dobbiamo aspettare che la polvere si depositi. E forse la combinazione di condomini cancellati da missili iraniani, il continuo spargimento di sangue nella Striscia di Gaza e l’ombra implacabile degli ostaggi sta bloccando una corsa indietro da parte degli elettori di destra”.

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