I turchi armati scoperti e arrestati a Viterbo potrebbero essere pedine di un gioco più grande. Erdogan li vuole, l'Italia frena
La quiete di Viterbo, dove la Macchina di Santa Rosa svetta come un faro di tradizione, è stata squarciata il 3 settembre da un blitz che sa di romanzo noir. Due turchi, giovani sono finiti in manette mentre si trovavano in un bed-and-breakfast del centro. Nella loro stanza, un arsenale da guerra: una mitraglietta, pistole, munizioni a non finire, guanti e cappelli per celare intenzioni oscure.
La Digos e i Carabinieri, con il fiuto di chi conosce i segreti della Tuscia, hanno spento sul nascere un piano che poteva trasformare la festa patronale in un bagno di sangue. Ma chi erano quei due? Soldati di una mafia turca? Pedine di un gioco più grande? E cosa c’entrano i Balcani, la Libia e le mosse di Recep Tayyip Erdogan, che da Ankara tuona per l’estradizione dei suoi nemici?
La Procura di Viterbo, con la Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Roma alle spalle, parla di traffico d’armi, non di terrorismo. Eppure, il nome che rimbomba è quello di Baris Boyun, il boss curdo della “Daltonlar Gang”, inchiodato a Bagnaia nel maggio 2024 e ora sotto chiave in regime di 41-bis.
La sua rete, un mostro tentacolare che si nutre di droga, migranti e Kalashnikov, aveva già lasciato il segno a Vetralla, dove l’anno scorso furono trovati Uzi, bombe a mano e persino un bazooka. Le armi di Viterbo, probabilmente nate in Turchia o nei covi balcanici di Bulgaria e Albania, potrebbero essere un’eredità del suo impero, forse per liberare un altro turco, Ismail Atiz, detenuto a Mammagialla, carcere di Viterbo, per estorsione e riciclaggio.
Ma c’è di più: la criminalità balcanica, con le sue radici nei conflitti degli anni 90, è il motore di un traffico d’armi e droga che attraversa l’Europa, e Viterbo sembra un nodo imprevisto di questa rete.
I Balcani non sono più solo terra di guerre dimenticate, ma un’autostrada per il crimine organizzato. Albania, Montenegro e Serbia dominano il traffico di eroina afghana, cocaina sudamericana e armi, spesso con la complicità di gruppi turchi come quello di Boyun. Le armi di Boyun, secondo le intercettazioni, transitavano da Bulgaria e Albania, dove la sua rete si intrecciava con gruppi locali per rifornire mercati europei.
Mentre Viterbo contava le sue pallottole, a Roma si giocava una partita ben più grande. Il 3 settembre, Italia e Stati Uniti mediavano un incontro tra Ibrahim Dbeibah, nipote dell’omonimo capo del Governo di Unità Nazionale libico, e Saddam Haftar, figlio del generale della Cirenaica.
La Turchia, alleata di Tripoli, ha sorpreso tutti flirtando con Haftar: ad agosto, una corvetta turca ha attraccato a Bengasi, e il capo dell’intelligence di Ankara ha incontrato il generale. Erdogan, che il 29 aprile aveva stretto patti economici con Meloni a Roma, vuole una Libia unita sotto la sua influenza, mentre fornisce armi a entrambe le fazioni, in barba all’embargo ONU.
E poi c’è la questione Boyun. Erdogan lo vuole in catene, accusandolo di terrorismo e tradimento. L’Italia, che nel 2022 e 2023 ha negato l’estradizione per timore di torture, si trova in una posizione scomoda: collaborare con Ankara, che si atteggia a partner dell’Occidente nella crisi ucraina, ma senza cedere sui princìpi.
Gli arresti di Viterbo, con le loro possibili connessioni balcaniche, potrebbero essere una leva per Erdogan, che preme per smantellare la rete di Boyun, mentre in Libia gioca a fare il mediatore.
La Tuscia, con i suoi borghi e la sua fede, si scopre crocevia di un gioco sporco che lega mafia turca, traffici balcanici e ambizioni di Erdogan. Le armi di Viterbo, forse destinate a un’evasione o a un regolamento di conti, sono un monito: il crimine non ha confini, e la Libia, con le sue risorse e il suo caos, è il tavolo dove si decidono le sorti del Mediterraneo. La processione è passata, ma l’odore di polvere da sparo resta.
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