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Home » Esteri » Medio Oriente » TRATTATIVA SULLA TREGUA?/ “Da Barghouti alla moschea di al Aqsa, i dettagli che dividono Netanyahu e Hamas”

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TRATTATIVA SULLA TREGUA?/ “Da Barghouti alla moschea di al Aqsa, i dettagli che dividono Netanyahu e Hamas”

Int. Ugo Tramballi
Pubblicato 29 Febbraio 2024
Dopo un raid di Israele nel sud della Striscia di Gaza, febbraio 2024 (Ansa)

Dopo un raid di Israele nel sud della Striscia di Gaza, febbraio 2024 (Ansa)

Tregua e ostaggi: trattative difficili tra Hamas e governo Netanyahu. Due posizioni opposte che paradossalmente si incontrano

“La trattativa per la tregua e la liberazione degli ostaggi è difficile: Hamas e Netanyahu si giocano la loro sopravvivenza, mentre l’obiettivo di tutto il mondo che sta intorno è esattamente il contrario, cioè di vedere scomparire sia Hamas che Bibi Netanyahu”. Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’Ispi, sintetizza così lo stato dell’estenuante trattativa che dovrebbe portare a una tregua a Gaza e allo scambio tra gli ostaggi rapiti il 7 ottobre e i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.


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Per Hamas, la semplice sopravvivenza alla guerra sarebbe una vittoria, per Netanyahu la rinuncia alla guerra, e forse anche solo una tregua lunga, potrebbe significare l’addio definitivo al suo governo e alla carriera politica. Una situazione non facile, acuita dall’imminenza del Ramadan, un periodo dell’anno che proprio per la sacralità che gli attribuiscono i musulmani solitamente alza la tensione. E anche dalle continue incursioni israeliane in Cisgiordania, motivate dalla sicurezza nazionale, ma che portano solo distruzione e morte. L’unica cosa che garantirebbe questa sicurezza sarebbe uno Stato palestinese, con confini definiti.


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La trattativa per la tregua e la liberazione degli ostaggi sembra sempre sul punto di decollare, ma poi l’attesa si prolunga. Cosa manca per trovare un accordo?

È una trattativa complessa e delicata, soprattutto perché i due protagonisti, Hamas e il governo Netanyahu, si stanno giocando la loro sopravvivenza. Per Hamas riuscire a non scomparire in questa guerra è fondamentale per continuare a esistere. Per vincere gli basta sopravvivere. Per Netanyahu, però, è in ballo l’esistenza del suo governo: già fare una tregua per scambiare ostaggi e prigionieri per lui significa correre il rischio della fine dell’esecutivo. Smotrich e Ben Gvir lo hanno detto ripetutamente: la loro priorità non sono gli ostaggi, ma tornare a Gaza. L’ideale sarebbe che Hamas fosse veramente ai minimi termini: gli egiziani li convincerebbero a cedere. Ma questo è tutto da vedere, probabilmente non sono in questa situazione.


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Il 10 marzo inizierà il Ramadan e l’auspicio almeno degli americani è di trovare un’intesa prima che inizi. Quanto può incidere questo particolare periodo sulla guerra e sulle trattative?

Il Ramadan è sempre un periodo delicato. Il digiuno significa un’esaltazione dell’elemento religioso islamico e gli israeliani tendono a non fare entrare i palestinesi a Gerusalemme, soprattutto nella città vecchia, per andare a pregare alla Spianata delle moschee. Se c’è tensione è il momento in cui questa si raddoppia, se non c’è è l’occasione perché si ricrei. L’anno scorso la polizia di frontiera, paramilitare, è entrata nella moschea di Al Aqsa, la terza più importante dopo La Mecca e Medina, e ha colpito con il calcio dei fucili i palestinesi che stavano pregando. Gerusalemme, d’altra parte, è sempre l’inizio di tutto. Gran parte dei conflitti scoppiano per qualcosa che succede lì.

Il ministro della Difesa Yoav Gallant dice che Iran, Hezbollah e Hamas vogliono fare del Ramadan un secondo 7 ottobre. Il livello di allarme è così alto?

Il 7 ottobre è successo perché gli israeliani dormivano. Difficile che possa accadere un altro evento del genere. Quella di Gallant è solo una sparata. Quando sentiamo la conta dei morti ci dicono che la fonte è il ministero della Salute palestinese, controllato da Hamas, come se per questo non dovessimo dar credito a quei numeri. A parte il fatto che i funzionari sono di Fatah, perché Hamas si è sempre rifiutata di governare la Striscia considerandola una base militare in cui i civili non sono cittadini ma scudi umani, sono cifre che, poi, vengono confermate da OMS e Dipartimento di Stato USA. Quando le dichiarazioni sono degli israeliani, invece, nessuno dubita. Eppure sostengono da quattro mesi che Hamas è alle corde, mentre sta lanciando ancora razzi verso Tel Aviv.

L’ottimismo di Biden per la conclusione in tempi brevi della trattativa per una tregua è fondato o è solo un suo auspicio?

CIA e Dipartimento di Stato trattano con Egitto e Qatar. Gli avranno dato informazioni in questo senso. È una situazione talmente complicata che oggi c’è pessimismo e domani no. Forse si è lasciato prendere la mano in un momento in cui gli hanno detto che l’intesa era vicina.

Fonti del Qatar dicono che c’è un accordo di massima sulla tregua e lo scambio di ostaggi, salvo poi precisare che non si è trovato un punto di equilibrio sui dettagli. Di strada da fare, quindi, ce n’è ancora molta?

È nei dettagli che si nasconde il diavolo. Si può essere d’accordo a grandi linee, ma poi, ad esempio, bisogna vedere quanti e chi sono i prigionieri da liberare. Se ci sono personaggi come Marwan Barghouti, che poteva essere leader dei palestinesi ma al quale sono stati comminati quattro ergastoli, gli israeliani possono opporsi. E lo stesso possono fare se i palestinesi chiedono tre mesi di cessate il fuoco e non 15 giorni. I dettagli sono la vera sostanza.

Una delle ipotesi di cui si è parlato è di scambiare 40 ostaggi con 400 prigionieri palestinesi. Può essere una base su cui trattare?

Le proporzioni possono essere queste. I prigionieri palestinesi comunque sono tanti, ci sono qualcosa come 7-8mila prigionieri politici.

Qualcuno sostiene che Israele libererebbe anche 15 personaggi di spicco. Potrebbero scarcerare Barghouti o qualche altro esponente della stessa importanza?

Non so se succederà adesso, durante la guerra, ma prima o poi succederà, come insegnano l’Irlanda del Nord o il Sudafrica. Mandela aveva creato il gruppo armato dell’ANC, poi è diventato il personaggio che conosciamo. La classe dirigente vera, del futuro, ora è nelle carceri israeliane. Barghouti, tra l’altro, non appartiene alla generazione di Arafat e Abu Mazen, ai palestinesi dell’esilio, è nato e cresciuto in Palestina e ha conosciuto direttamente l’occupazione. Parla perfettamente ebraico ed è sempre stato un politico moderato, critico con Arafat. Era armato quando c’era la guerra. Per gli israeliani chi uccide un colono è un terrorista, per i palestinesi è uno che lotta per la liberazione della Palestina. Punti di vista diversi che alla fine di un conflitto possono incontrarsi.

L’IDF è entrata per l’ennesima volta in Cisgiordania, a Jenin, usando droni e armamenti pesanti. Anche bulldozer per rendere inutilizzabili alcune infrastrutture. Proprio mentre la segretaria del Tesoro USA, Yellen, mette in guardia Netanyahu invitandolo a sostenere lo sviluppo della Cisgiordania. Un altro fronte in cui la tensione si sta alzando troppo?

Ogni volta che l’esercito entra nelle città della Cisgiordania distrugge le infrastrutture con i bulldozer: elettricità, condotte dell’acqua. Hanno ganasce che, quando passano, rompono il selciato. Lo fanno soprattutto da quando c’è questo governo, la cui intenzione è di rendere per quanto possibile invivibili questi territori. Uccidono civili, donne e bambini e distruggono quello che possono. La Yellen ha ragione: visto che gli USA pensano alla ricostruzione, più si distrugge e più sarà difficile risistemare tutto. Per gli israeliani, la sicurezza nazionale è la priorità, e c’è da capirli. Ma la cosa che può dare garanzia di sicurezza allo Stato di Israele è la nascita di uno Stato palestinese: una nazione è sicura se ha frontiere sicure. Fatah, d’altra parte, cioè l’ANP, riconosce Israele da 30 anni.

Delle dimissioni del governo palestinese, cosa si può dire? Sono un gesto di facciata o c’è della sostanza?

I palestinesi, diversamente dal governo Netanyahu, ascoltano le richieste degli americani: è una condizione fondamentale per costruire il “day after”. Sanno che la loro classe dirigente deve cambiare. Senza Hamas.

(Paolo Rossetti)

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