Putin lancia il più massiccio attacco di droni e missili sull'Ucraina e attacca a Sumy. La Ue del riarmo allontana i negoziati
Putin non crede al negoziato. Lo dimostrano gli attacchi messi in atto negli ultimi giorni, lanciando centinaia di missili e droni in una sola notte sull’Ucraina, ma anche sferrando un’offensiva a Sumy. Il simbolo della guerra diventano allora i droni di derivazione iraniana, azionati dalla IA e realizzati con componentistica occidentale, che sono stati usati a partire dagli ultimi attacchi: segno dell’escalation del conflitto a livello tecnologico, ma anche della complessità e ambiguità di una situazione in cui parti americane e francesi servono a realizzare un’arma da guerra russa.
USA e Russia, d’altra parte, spiega Maurizio Boni, generale di Corpo d’armata e opinionista di Analisi Difesa, hanno interessi comuni e le condizioni che Putin pone per la pace, per Mosca, sono questioni di sopravvivenza. Difficile, inoltre, favorire il negoziato se la UE, von der Leyen in primis, pensa a un’Ucraina “porcospino d’acciaio” (quindi armata) per evitare altre invasioni: è proprio quello che il Cremlino non vuole, ed è il motivo per cui continua la pressione militare.
Quasi 500 tra missili e droni in una notte, stavolta diretti anche nella zona occidentale del Paese. È un segnale ulteriore che la Russia ormai cerca una soluzione militare?
Estendere gli obiettivi alla parte occidentale è uno sviluppo della strategia che ha portato a colpire gli obiettivi strategici in profondità. Dopo aver preso di mira gli obiettivi nell’est dell’Ucraina, si è passati dall’altra parte. È il segnale che, probabilmente, Putin nei negoziati non vede nulla di concreto. L’attacco dell’altra notte è stato, probabilmente, quello che ha visto il maggior numero di vettori utilizzati dall’inizio della guerra: droni e missili a lungo raggio. Sono stati anche impiegati missili ipersonici Kinzhal, il che la dice lunga sulla capacità industriale della Russia. La produzione di droni è stimata in circa 110 unità al giorno, con una scorta di più di 3.000 droni alle spalle.
Fino a che punto potranno spingere i russi con questi attacchi?
Ci possono essere giorni con ondate numerose e altri con un impiego di droni più ridotto, però la capacità offensiva è veramente rilevante. La novità è che è entrato in scena un drone di ultimissima generazione, una versione dello Shahed 136 di derivazione iraniana, denominato MS-001. Un quotidiano ucraino poco noto ne ha pubblicato la foto, rivelando che è totalmente governato dall’intelligenza artificiale, quindi in grado di alzarsi in volo, rilevare l’obiettivo e ingaggiarlo, eludendo la difesa aerea. Un drone che fa da scout, al quale seguono gli sciami di altri droni.
Perché è così importante questo drone?
Il fatto più sconcertante è che il 60% di tutta la componentistica del drone è reperibile dalla supply chain del commercio internazionale: dentro c’è un sistema di comunicazione di derivazione cinese, componentistica tecnologica degli Stati Uniti, della Sud Corea, della Francia. Questo per dire che, in questa situazione, è sempre più difficile distinguere tra bianco e nero; è indice di quali interconnessioni ci sono a livello internazionale. E, soprattutto, la dice lunga sul fatto che l’Occidente, nel campo della produzione di droni, parte da zero: non a caso, la Francia si è precipitata a stipulare contratti con l’Ucraina, impegnando la Renault.
I russi procedono anche sul terreno?
L’artiglieria russa è arrivata a distanza di tiro dalla città di Sumy. Significa che, nelle prossime settimane, inizierà il “trattamento” che prevede bombardamenti a tappeto dell’artiglieria. Oramai l’abitato di Sumy è condannato, e questo è molto rilevante per la parte settentrionale del fronte.
È la famosa zona di sicurezza che Putin vuole mettere tra Russia e Ucraina?
È molto di più di una zona cuscinetto: c’è un’intera regione a rischio. Una volta collassata la difesa, i russi avrebbero di fronte il vuoto. Per questo l’Ucraina sta facendo affluire, proprio in quel settore, tutte le riserve di cui dispone per arginare questa offensiva.
Putin ha dato atto a Trump che si sta impegnando seriamente per cercare di portare la pace in Ucraina. Negli USA, però, una parte dei repubblicani, quella più vicina alle istanze neocon, è pronta a chiedere di varare una legge che aumenta le sanzioni contro la Russia. Cosa vogliono davvero gli Stati Uniti?
La frangia neoconservatrice è quella che dava per certo che il regime iraniano sarebbe collassato, che ha costretto Trump a intervenire in Iran: è lo stesso disegno. Poco più di un mese fa, Putin aveva predetto ampiamente l’esito del summit della NATO, sostenendo che Trump avrebbe detto agli alleati cosa fare e loro avrebbero obbedito. E così è stato. Trump, tuttavia, deve per forza tenersi buono il capo del Cremlino: i due Paesi hanno importanti accordi commerciali e, comunque, c’è stata una riapertura del dialogo tra Russia e USA. Per questo, il comunicato finale del summit della NATO evita di provocare in qualunque modo Mosca.
Tutto ciò, però, condiziona non poco Trump. Le trattative, alla luce di questo elemento, dove possono portare?
Attualmente non è che ci siano troppe prospettive positive. Non mi risulta che ci siano trattative riservate tra gli Stati Uniti e la Russia, mentre Ucraina ed Europa non toccano palla. I nodi della questione rimangono irrisolti: la neutralità dell’Ucraina, le garanzie di sicurezza per la Russia, tutti problemi difficili da risolvere. Il tavolo negoziale rimane aperto, ma nel frattempo i russi continuano a imporre il loro ritmo alla guerra.
C’è qualcosa su cui Putin, pur partendo da una posizione vantaggiosa, potrebbe fare concessioni per dare a Trump la possibilità di presentare l’accordo anche come una sua vittoria?
Non credo. Per i russi non si tratta di salvare la faccia: è una questione di sopravvivenza. Per gli americani e il blocco occidentale parlare di compromesso è naturale, per i russi lo è molto meno: per questo è molto difficile arrivare a una svolta sostanziale nel negoziato.
L’Ucraina è uscita anche dalla convenzione contro le mine antiuomo. Una mossa della disperazione?
È una formalità burocratica: ormai, in guerra, non c’è più niente che si possa ricondurre al diritto internazionale. Se un Paese è convinto che la propria sicurezza nazionale dipenda anche dall’impiego di questi mezzi, li usa. È come se gli ucraini dicessero che la situazione è talmente grave da costringerli a uscire da questo trattato.
Il Ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul è stato in visita in Ucraina. Succede spesso che componenti del governo Merz si facciano vedere a Kiev. Vogliono sostenere militarmente Zelensky?
Stanno pensando soprattutto al futuro, non tanto militarmente, perché non c’è più molto da osare. Interessano le prospettive di sviluppo dell’industria bellica ucraina, un settore nel quale la Germania vuole avere un ruolo fondamentale.
L’unica cosa su cui può essere attiva l’Europa è la ricostruzione?
Zelensky ha detto chiaramente che i Paesi europei dovrebbero dedicare parte del proprio PIL alla ricostruzione. Ma su quella civile hanno già messo le mani gli Stati Uniti, il Regno Unito, in parte la Polonia, la Francia. La Germania potrebbe investire nel comparto militare.
Il riarmo europeo cerca di affermarsi in Ucraina per fare da volano all’economia UE?
Certo. E poi tutto questo fa parte del disegno tedesco (perché la Von der Leyen lo è) di rendere l’Ucraina un “porcospino d’acciaio” indigesto agli invasori. Più si parla di queste cose, però, più le prospettive negoziali con la Russia si riducono, perché una delle richieste di Mosca è di non avere un’Ucraina armata.
(Paolo Rossetti)
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