La Cina si è mossa in modo scaltro ed è l’attore geopolitico più in grado di massimizzare il risultato della guerra in Ucraina. Lo scenario
Esattamente ottanti anni fa, dal 4 all’11 febbraio 1945, si tenne a Yalta la conferenza che gettò le basi per l’ordine internazionale che seguì la Seconda guerra mondiale. Questa ricorrenza ha indotto numerosi analisti a interpretare l’attività diplomatica di Trump come un preludio a una ristrutturazione multipolare dell’ordine globale, con Stati Uniti, Russia e Cina quali tre pilastri fondamentali. Tuttavia, la prospettata “Yalta 2.0”, auspicata da autorevoli testate come The Guardian, Asia Times e South China Morning Post, potrebbe realizzarsi solo grazie all’iniziativa cinese, che in questa fase di incertezza rappresenterebbe l’unico attore strategico capace di mediare tra USA e Russia, avviando così una fase di stabilizzazione.
Un anno fa scrivemmo che l’attore geopolitico capace di garantire un nuovo equilibrio internazionale sarebbe emerso come il vero vincitore nella transizione egemonica in corso. Sembra che questa sia precisamente l’intenzione di Xi Jinping e della diplomazia cinese. L’attivismo del ministro degli Esteri cinese Wang Yi nella recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco dimostra la volontà cinese di auto-rappresentarsi come la sola potenza in grado di giocare un ruolo nella risoluzione politica della guerra in Ucraina e nella realizzazione della pace.
Assumendo una postura dialogante nei confronti dell’Occidente, Wang nel suo incontro con il segretario generale della NATO Mark Rutte ha dichiarato che la Cina “è una forza per mantenere la pace e la stabilità” e “il più grande contributore al mantenimento della pace” tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Parole di pace particolarmente significative, poiché rivolte verso interlocutori che considerano la Cina un rivale strategico, ma che rivelano l’importanza che ha per la Cina la possibilità di giocare un ruolo attivo nella risoluzione della guerra in Ucraina.
Le rivelazioni del Wall Street Journal riguardo alla disponibilità della Cina a inviare truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione come forza di pace in Ucraina evidenziano l’importanza cruciale che Pechino attribuisce alla questione. Avere dei soldati alle frontiere dell’Europa a tutelare la sicurezza delle catene logistiche della Nuova Via della Seta, garantendo, al contempo, la pace fra la Russia e l’Ucraina e i suoi alleati europei rappresenterebbe per la Cina una vittoria epocale ottenuta con un modesto impiego di risorse e con la capacità di capitalizzare a proprio vantaggio l’avventurismo di Putin e le incertezze e divisioni degli occidentali.
Tuttavia, la strada che porta a una “Yalta 2.0” promossa dai cinesi presenta delle difficoltà, come dimostrano le recenti iniziative del presidente Trump che puntano a distanziare la Russia dalla Cina, suggerendo un tentativo di indebolire l’alleanza tra Mosca e Pechino.
Inoltre, il presidente Putin non mostra alcuna intenzione di assumere una posizione subordinata rispetto a Xi Jinping. Per quanto riguarda le questioni energetiche, Putin sembra preferire l’Arabia Saudita come mediatore, come evidenziato dai negoziati in corso tra funzionari russi e americani a Riyad per discutere della situazione ucraina.
Ad ogni modo, al netto del dossier di Taiwan, che aggiunge un ulteriore livello di complessità, l’unico attore geopolitico che sembra avere un comportamento coerente e razionale è la Cina, che dal primo momento ha scommesso su un esito incerto della guerra che avrebbe indebolito entrambi i contendenti. Anche se in modo ambiguo, la Cina ha dal primo momento auspicato una soluzione pacifica del conflitto, riuscendo a creare legami di dipendenza con la Russia – che per le sue esportazioni di materie prime non può fare a meno del mercato cinese – senza rompere con l’Ucraina.
Se a questi elementi aggiungiamo il fatto che, auto-rappresentandosi come alternativa alla postura aggressiva degli occidentali, la Cina è diventata il punto di riferimento di quello che viene definito il Global South, non possiamo negare che siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro diplomatico.
Il parallelo storico con la conferenza di Yalta, però, non deve farci dimenticare che il sistema delle relazioni internazionali che nacque dopo la fine della Seconda guerra mondiale non fu semplicemente il frutto della logica di potenza e della creazione di aree di influenza. Il secondo dopoguerra ebbe un’infrastruttura economica e diplomatica capace di garantire sviluppo e stabilità che ricordiamo con il nome di Golden Age; viceversa la fase attuale è caratterizzata da una competizione fra potenze e un’instabilità sistemica che solo gli ottimisti possono immaginare come il preludio di un multipolarismo virtuoso.
Il conflitto in Ucraina e la rielezione di Trump hanno segnato la fine dell’egemonia globale americana; tuttavia la stabilità sotto una leadership cinese, che guadagna sempre più sostenitori, appare ancora lontana. Come abbiamo scritto tre anni fa, la fase di incertezza inaugurata dalla guerra in Ucraina vede Stati Uniti, Russia e Cina come membri di un direttorio capace di condizionare la dinamica delle relazioni internazionali. Soltanto il protagonismo dell’Unione Europea potrebbe contrastare la logica di potenza di USA, Russa e Cina, risolvendo in senso multipolare la crisi in atto; ma l’irrealizzabilità di questa ipotesi, al momento, sembra autorizzare ogni forma di pessimismo.
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