Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sarà molto difficile trovare un equilibrio tra la volontà politica di avviare una nuova fase di protezionismo economico al servizio della sicurezza nazionale e la necessità di attrarre investimenti esteri. La politica economica statunitense è destinata a scontrarsi con una realtà complessa, in cui le ambizioni di crescita economica confliggeranno con le strategie geopolitiche. Negli ultimi anni, gli investimenti esteri diretti (FdI) negli Stati Uniti hanno registrato un aumento significativo, raggiungendo 5,4 trilioni di dollari nel 2023, una crescita del 50% rispetto al 2016. Ma un significativo trend positivo si scontra con una crescente politicizzazione degli investimenti stranieri, alimentata dalla volontà di proteggere settori considerati strategici. La recente decisione di Joe Biden di bloccare l’acquisizione di U.S. Steel da parte di Nippon Steel, motivata da preoccupazioni di sicurezza nazionale, ha allarmato le imprese asiatiche che intendono investire negli USA. Donald Trump, durante il suo primo mandato, ha rafforzato i poteri del Comitato sugli Investimenti Esteri negli Stati Uniti (CFIUS), estendendone il raggio d’azione a transazioni immobiliari e investimenti non controllanti in settori critici, ma la narrazione dell’“America First” rimane caratterizzata da una profonda ambiguità di fondo. Lo dimostra il doppio standard usato per l’acquisizione di Qualcomm da parte della società di Singapore Broadcom, alla quale ha negato l’acquisizione di Qualcomm che avrebbe dato vita a un gigante nel settore strategico dei microchip, e il via libera all’investimento di 100 miliardi di dollari da parte della giapponese SoftBank nel settore dell’intelligenza artificiale.
Questi casi provano quanto sia ancora forte l’interesse degli investitori asiatici per il mercato americano, ma il calo degli investimenti cinesi, diminuiti del 12% dal 2016, riflette l’impatto di politiche più rigide e una crescente competizione geopolitica che Trump con le sue recenti dichiarazioni a Davos promette di inasprire. A riguardo, il presidente USA ha dichiarato di voler riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina attraverso un “commercio equo” e nuove tariffe del 10% , che nelle sue intenzioni dovrebbero incentivare la produzione domestica. In questa direzione va anche il rafforzamento del potere del CFIUS, aprendo una fase in cui la logica della competizione fra potenze guiderà le decisioni economiche, facendo sfumare la distinzione tra protezione economica e sicurezza nazionale.
Ad ogni modo, l’interesse dell’Asia per il mercato statunitense rimane forte. Nel 2023, gli investimenti asiatici negli Stati Uniti sono aumentati del 60%, raggiungendo quasi un trilione di dollari. Il Giappone è stato il maggiore investitore, con 688 miliardi di dollari, seguito dalla Cina, la cui presenza è però diminuita del 12% nello stesso periodo. Un dato che è il frutto della volontà di Trump di bloccare l’acquisizione di aziende strategiche da parte di attori cinesi, come nel caso di Lattice Semiconductor e del software cloud StayNTouch.
La motivazione principale dietro queste decisioni è stata la protezione dei dati sensibili e delle infrastrutture critiche da potenziali interferenze straniere. In un recente articolo sull’Economist la visione di Trump è stata paragonata a quella del presidente William McKinley, che non a caso è stato ampiamente citato nel discorso dell’Inauguration Day. Come McKinley, Trump punta sul protezionismo, l’espansione territoriale e la crescita economica attraverso tariffe elevate e investimenti industriali. McKinley, che favorì l’ascesa di titani dell’industria come J.P. Morgan e John D. Rockefeller, si fece promotore dell’ascesa degli USA a rango di potenza imperiale attraverso l’annessione di territori chiave come Hawaii, Guam e Porto Rico e consolidando il potere economico e militare americano. In modo non dissimile, Trump ha dichiarato di ampliare e rafforzare la sfera di influenza nel continente americano aumentando la posizione dominante degli Stati Uniti nell’economia globale grazie al ricorso disinvolto al potere esecutivo e al sostegno dell’industria nazionale e dei suoi “tecnotitani”. Una ricetta che nelle intenzioni di Trump darà vita a una nuova Gilded Age in cui coesistono ambizioni imperiali e supremazia tecnologica.
Ma il mondo del XXI secolo è più complesso di quello di McKinley, in cui gli USA stavano iniziando a dispiegare la loro nascente potenza industriale. A differenza del suo predecessore, Trump si trova a dover bilanciare tendenze profondamente contrastanti, un compito per il quale potrebbe rivelarsi insufficiente un approccio “transazionale” fondato sull’uso disinvolto dei rapporti di forza, e trovare un equilibrio fra il protezionismo economico con l’attrazione di investimenti stranieri contenendo, al contempo, le ambizioni egemoniche della Cina non sarà un’impresa facile.
In altri termini, rivendicare per sé un ruolo imperiale negandolo agli altri è una contraddizione difficilmente sostenibile all’interno dell’arena internazionale. Riconfigurare l’impero americano in senso domestico e a spese di alleati e investitori stranieri vorrebbe voler tornare a un passato che non esiste più. In definitiva, confondere una fase di ascesa ed espansione con una di transizione e trasformazione strutturale potrebbe condannare gli USA a un inevitabile declino.
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