Meeting di Rimini. Un gruppo di amici ucraini. Disposti alla riconciliazione solo se i russi riconoscano il male fatto. Dove ricomincia il perdono?
Sono tornato dal Meeting di Rimini, ho potuto andarci per un solo giorno. Ci tenevo soprattutto a incontrare gli “Amici di Emmaus”, che oltre a preparare una mostra avevano organizzato un incontro con il vescovo di Kharkiv, mons. Goncharuk, e un cittadino kazakistano, cattolico, che essendo andato a vivere a Bucha si è trovato coinvolto nella tragedia di quella città, assumendosi un ruolo importante nella salvezza di molti suoi concittadini.
Sono stato accolto con simpatia dagli amici ucraini. Però, anche se non potevano non riconoscere l’aiuto che avevo cercato di dar loro, anche andando a trovarli in Ucraina, ho avuto l’impressione che un po’ mi rimproverassero il mio atteggiamento verso i russi. Qualcuno me lo ha detto anche apertamente. Va bene il dialogo, va bene la riconciliazione, ma solo dopo che loro hanno riconosciuto il male che hanno fatto o che hanno permesso di fare.
Io non nego, non ho mai negato che l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito della Federazione Russa sia stata un’aperta violazione del diritto internazionale, per di più compiuta con una brutalità orrenda. Non solo. Essendo arrivato a Kiev l’anno scorso in luglio, il giorno dopo il bombardamento dell’ospedale pediatrico, ho potuto, dovuto vedere con i miei occhi il massacro compiuto contro quegli innocenti e contro chi se ne prendeva cura, per citare un episodio tra ia tanti.
Quando però incontro certi amici russi, o semplicemente in santuario diversi studenti che studiano a Milano e e sono contenti di trovare un prete, sia pure cattolico, con cui confidarsi, non mi sento di accusarli di un male che non hanno compiuto. È vero, molti di loro hanno lasciato fare, non hanno avuto o non hanno tuttora il coraggio di dissociarsi apertamente dall’iniziativa del loro governo, ma la loro non è forse una situazione simile a tanti tedeschi che non presero la decisione di aderire alla Rosa Bianca? Sicuramente c’è anche qualcuno che, pur se non lo ammette, spera nella vittoria dell’esercito russo; forse non avete l’idea della forza della propaganda del regime di Putin che ha invaso il mondo dei social.

E così sento che il mio compito, il nostro compito, verso questi ragazzi russi, non è partire con loro da un giudizio sulla guerra, ma sul significato della loro vita, su cosa ritengono vero e giusto. Sarà questo percorso (speriamo) che li porterà a capire che quello che stanno facendo i loro politici è orribile.
In questo senso, anche avendo visto in registrazione l’incontro tra la madre israeliana e quella palestinese, mi permetto di fare anche una riflessione sul tema del perdono. Premesso che l’unico che può perdonare, perdonare i peccati, anche i nostri peccati, è solo Dio, si tratta di ritrovare un modo per riconciliarsi tra persone che hanno subìto spaventose ferite “dall’altra parte”.
Quando penso al mio corpo e alle sue numerose cicatrici, soprattutto a quella tremenda che ho sulla schiena, mi accorgo che sono ciascuna il segno di una esperienza di dolore che non può e non deve essere cancellata, anche quella di un dolore provocato ingiustamente e non dai medici.
Al tempo stesso ripenso alle parole pronunciate da San Giovanni Paolo II nell’aula magna dell’Università eurasiatica di Astana, dodici giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York. In quell’occasione il papa, sapendo che erano presenti in sala studenti discendenti da deportati nei lager di Stalin, insieme ad altri che erano discendenti da chi comandava quei lager, disse: “Senza cancellare la memoria di quel tragico passato, è venuto il momento di costruire insieme un nuovo futuro”.
Credo che in effetti sia in Ucraina che in Palestina verrà il tempo della ricostruzione, che inevitabilmente non potrà non venire, e ci dirà se sarà possibile una vera rappacificazione.
Qualcuno mi obietta: “Comunque per avere il perdono prima devono pentirsi e chiederlo tutti”. È vero, così fece anche san Paolo dopo la caduta da cavallo, ma il segno del pentimento non fu un semplice atto di dolore, ma una conversione, nel suo caso, vissuta fino in fondo.
Non tutti sono dei san Paolo, ma la disponibilità a lavorare insieme nella ricostruzione, al di là degli inevitabili interessi personali, sarà la prova che aspettiamo e per cui vale la pena di pregare.
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