Per la Corte europea di Giustizia è tutto chiaro sul piano legale: la Commissione Ue ha avanzato una pretesa infondata quando ha imposto ad Apple di ripagare all’Irlanda 13 miliardi di euro di tasse inizialmente abbuonate da un accordo ad hoc con il governo di Dublino. Ma tutto il resto – sul piano politico-istituzionale – sembra esser rimesso in discussione, se non addirittura gettato nel caos: a cominciare dall’equilibrio sempre più problematico fra potere esecutivo e potere giudiziario anche nella governance Ue.
Sono infatti trascorsi solo due mesi da quando la Corte costituzionale tedesca ha ordinato alla Bce di spiegare entro 90 giorni le motivazioni del nuovo programma di acquisto di titoli pubblici di Paesi membri dell’eurozona. Ieri, viceversa, è stata la magistratura comunitaria a bocciare una decisione di un altro pilastro istituzionale dell’Unione (la Commissione di Bruxelles) contro l’applicazione di una legislazione fiscale nazionale da parte del governo di quel Paese-membro. Un apparente “ciclone perfetto” attorno a ben quattro “occhi”: oltre i rapporti fra Commissione e Corte su scala Ue, spiccano la concorrenza fra poteri nazionali e comunitari, la centralità della materia fiscale e i riflessi diplomatici verso gli Usa e i super-poteri globali dei giganti tech. E tutto è maturato all’inizio del “semestre Merkel” alla guida della Ue e alla vigilia di un Consiglio di capi di Stato e di governo sul Recovery fund. Per questo non appare affatto facile fissare in concreto questioni e prospettive.
Nei titoli a caldo, ieri, ricorreva la formula “smacco per la Commissione”, in particolare per l’Antitrust di Bruxelles. L’esecutivo guidato da Ursula von der Leyen, nato un anno fa da un parto travagliatissimo e subito investito dalla tempesta-Covid rimane lontano dall’aver conquistato un acclimatamento minimo. Lo stesso semestre di presidenza tedesca sta enfatizzando la sostanziale subalternità a un direttorio franco-tedesco peraltro poco coeso e autorevole. E Bruxelles mostra di perdere rapidamente capacità di gestione delle crescenti tensioni interne all’Ue: giungano esse dalle ormai “para-democratriche” dell’Est, dai Paesi indebitati del Sud, o dai cosiddetti “Paesi frugali” del Nord.
Da uno di questi, la Danimarca, proviene Margrethe Vestager, che l’anno scorso si è vista confermata all’Antitrust, con la promozione a vicepresidente esecutivo della Commissione. Non c’è dubbio che la prima vittima della “sberla di Lussemburgo” sia lei: quotata ex vicepremier “frugale” a Copenaghen, dura e sperimentata reggitrice della più importante “authority” Ue dopo la Bce. Era in lizza perfino per la presidenza della Commissione la liberale Vestager: implacabile nell’incalzare la Silicon Valley su fisco, monopoli digitali e privacy piuttosto che le banche italiane o la fusione franco-tedesca Alstom-Siemens. Di certo da ieri Vestager è un po’ meno “super”, anche se non è completamente chiaro chi sia riuscito a colpire cosa nella figlia di un pastore protestante dello Jutland.
L’esercito di avvocati e lobbisti dispiegato da Apple sul campo di battaglia europeo era certamente all’altezza di un gruppo il cui valore a Wall Street traguarda il Pil di un Paese come l’Italia. Ma non è detto che la pronuncia giunta da Lussemburgo sia imbevuta anche di malumori diversi, più politici. Che filtri i disagi di Paesi, settori o big economico-finanziari, apparati istituzionali europei che non condividono la “crociata Vestager”: né il suo ferreo approccio rigorista in campo fiscale (opposto, fra l’altro, a quello adottato dall’amministrazione Trump contro le stesse “Gaaf” nel loro Paese), né l’escalation conflittuale con l’America, in particolare quella delle piattaforme digitali geo-strategiche. E su questo terreno non può essere ignorato l’accendersi della partita geopolitica attorno all’espansione della cinese Huawei in Europa: bloccata in questi giorni dalla Gran Bretagna (peraltro appena uscita dal’ Ue) a conferma delle storiche “relazioni speciali” con gli Usa.
Non si può d’altronde escludere neppure una dinamica più sottile e complessa all’interno della tormentata situazione politica corrente dell’Unione. I Paesi “frugali” che stanno tenendo alta la tensione polemica attorno alla politica di aiuti comunitari per la Ricostruzione sono guidati dall’Olanda: il “paradiso fiscale interno” all’Europa più noto assieme all’Irlanda (al centro della contenzioso Ue-Apple) e al Lussemburgo. È una situazione in cui il commissario agli Affari economici, l’italiano Paolo Gentiloni, ha dovuto riconoscere ieri come “corretta” – benché “aggressiva” – la politica di concorrenza fiscale sviluppata da Amsterdam soprattutto a beneficio di grandi corporation (anche italiane). È parsa una pronuncia interlocutoria, ma distensiva mentre in Europa si moltiplicano i segnali di contro-campagna in preparazione verso i “paradisi frugali”. Un atteggiamento tattico che – forse – è riscontrabile anche nella sentenza della Corte Ue, che ieri ha riaffermato il pieno diritto dell’Irlanda a concedere ad Apple generosi sconti fiscali in cambio della scelta di fissare a Dublino il quartier generale europeo.
Su questo versante può essere utile un ultimo memo. Poco più di un anno fa Amazon ha clamorosamente cancellato il progetto di secondo quartier generale a New York, oltre a quello di Seattle. Il piano avrebbe portato alla costruzione di una nuova “città digitale” nel Queen’s con 25mila nuovi posti di lavoro qualificati in cambio di incentivi fiscali e sussidi diretti per 1,5 miliardi di dollari. Jeff Bezos – da sempre vicino ai democrat – aveva raggiunto accordi sia con il sindaco di New York, Bill di Blasio, sia con il governatore Andrew Cuomo. Il patron di Amazon è stato però costretto a gettare la spugna sotto il fuoco di contrasto di Alexandra Ocasio-Cortez, giovane astro nascente dem, eletta proprio nei borough periferici della Grande Mela. Troppi vantaggi fiscali per un Paperone secondo “AOC”: fautrice di una politica fiscale aggressiva contro grandi patrimoni e grandi redditi. Era la stessa piattaforma del social-dem Bernie Sanders: nuovamente sconfitto, tuttavia, alle primarie dal centrista Joe Biden.
Nell’America sconvolta dal Covid non meno dell’Europa la questione fiscale si annuncia comunque come centrale nella Fase 3. Attorno a un tema strutturale: per rimarginare le profonde ferite economiche lasciate dalla pandemia è meglio abbassare o alzare le tasse al big business? Vedremo cosa diranno fra quattro mesi gli americani nel voto per la Casa Bianca.