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Home » Educazione » Università » UNIVERSITÀ/ “Siamo all’avanguardia nella ricerca, ma ci sono troppe rigidità e servono più investimenti”

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UNIVERSITÀ/ “Siamo all’avanguardia nella ricerca, ma ci sono troppe rigidità e servono più investimenti”

Int. Giovanna Iannantuoni
Pubblicato 23 Agosto 2025
Giovanna Iannantuoni  (Ansa)

Giovanna Iannantuoni (Ansa)

Oggi al Meeting di Rimini si parla di università con Giovanna Iannantuoni ed Elena Beccalli: "Università. Una presenza che costruisce per tutti"

Il sistema universitario italiano vive una stagione sorprendente: produciamo ricerca di livello mondiale, con una produttività quasi doppia rispetto ai colleghi francesi e oltre la metà delle pubblicazioni con coautori stranieri. Eppure permangono criticità urgenti: investimenti stagnanti, boom delle università telematiche, rigidità curricolari.


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Se ne parlerà oggi al Meeting di Rimini nell’ambito dell’appuntamento intitolato “Università. Una presenza che costruisce per tutti”. Ne abbiamo anticipato i temi con Giovanna Iannantuoni, economista, presidente della CRUI (Conferenza dei rettori delle università italiane) e  rettore dell’Università di Milano-Bicocca.


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Professoressa, com’è la qualità della ricerca negli atenei italiani? Cosa può dirci in proposito?

Sulla ricerca rispondo come presidente CRUI e a nome degli 85 atenei del nostro Paese. Devo dire che l’Italia fa molto bene. Se andiamo a vedere le classifiche internazionali, per livello di produttività e qualità delle pubblicazioni siamo stabilmente tra i primi 5-6 Paesi al mondo.

E la produttività dei ricercatori italiani rispetto alla media europea è quasi il doppio di quella dei ricercatori francesi. È una ricerca, quella italiana, più solida di quello che noi stessi pensiamo soprattutto a livello di pubblica opinione. E voglio sottolineare che è una ricerca internazionale: più della metà delle pubblicazioni dei colleghi italiani sono con coautori stranieri.


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Dunque abbiamo un buon livello di internazionalizzazione.

Sì. Viviamo pienamente le reti della conoscenza, e la scienza, chiaramente, non ha confini, è anche uno strumento di pace e di collegamento tra i popoli. Questo i ricercatori e gli scienziati italiani lo vivono quotidianamente.

Non pensa, se le cose stanno così, che la nostra eccellenza nella ricerca sia sottostimata nel Paese?  

Lo confermo. Abbiamo importanti eccellenze che non vengono valorizzarle adeguatamente. C’è una sottostima dovuta in gran parte ad un ritardo nella conoscenza di ciò che siamo. È per questo che da presidente della CRUI ho voluto fortemente, e in questo il Quirinale ci è venuto molto incontro, una Giornata dedicata all’Università, che si tiene a marzo di ogni anno.

Ricercatori, Laboratorio, Studio
Ricercatori in laboratorio (Foto: Pexels)

Ne abbiamo già celebrate due. In questa giornata tutte le università italiane tengono le porte aperte per mostrare ai cittadini le loro eccellenze: i laboratori, la ricerca medica, sociale, educativa. Dobbiamo rendere l’università quella porta di opportunità e quell’ascensore sociale di cui il Paese ha molto bisogno. La democrazia senza l’università non esiste, perché senza l’università non diamo la possibilità ai nostri giovani talentuosi di realizzare se stessi.

E sul piano della didattica?

Abbiamo una didattica molto metodologica, siamo molto forti nel formare i ragazzi e la cosiddetta “fuga dei cervelli” è un aspetto di questo fenomeno. Se vediamo i dottorati stranieri, i PhD, possiamo serenamente constatare che gli studenti italiani sono sempre più bravi. Significa che questi ragazzi li sappiamo formare bene.

Cosa dobbiamo fare sotto questo aspetto?  

Puntare sempre di più su una didattica internazionale e favorire lo scambio di studenti sia in uscita che in ingresso.

E la terza missione, l’interazione con il territorio?

Faccio un esempio concreto. Come Università Bicocca abbiamo scelto di destinare il PNRR alla interazione con la città di Milano. Abbiamo letteralmente trasformato in un laboratorio all’aperto una grande piazza dell’Ateneo, piazza della Scienza, prima vuota e disadorna. Non ci deve essere un confine tra l’università e la città; servono amministrazioni ricettive e sempre più eventi aperti ai cittadini. I ragazzi devono capire il prima possibile che investire su se stessi è la cosa migliore che possono fare.

Nell’incontro di oggi ci saranno studenti che testimonieranno sul valore di frequentare l’università in presenza, vivendola. Qual è secondo lei l’importanza di questa scelta?

Studenti universitari (Ansa)

La frequenza dell’università è oggi a rischio per il successo degli atenei telematici, la sfida dell’intelligenza artificiale della digitalizzazione. La mia convinzione è che anche i più avanzati strumenti di intelligenza artificiale debbano essere adottati “in presenza”, perché nessun processo educativo può essere realizzato appieno se non c’è un incontro vivo tra il docente e l’allievo e tra gli studenti stessi. Questo scambio culturale e umano è irrinunciabile.

Arriviamo appunto alle cosiddette “università telematiche”. Lei ha espresso preoccupazione. Perché?

In Italia le università telematiche hanno un successo incredibile, basti pensare che su due milioni di studenti universitari, 200mila frequentano gli atenei telematici. La cosa più preoccupante è la distribuzione geografica: vengono frequentate per lo più nel Mezzogiorno. Ovviamente gli atenei più piccoli risentono di questa competizione. Ma il vero tema è la differenza di obiettivi tra questi due tipi di ateneo. Nel nostro Paese le università statali e non statali – ad esempio Milano Statale, LUISS, Cattolica, eccetera – sono tutte enti no profit: il loro primo obiettivo non è massimizzare il profitto, ma formare i ragazzi. Le telematiche, invece, appartengono a fondi di investimento ed hanno una natura profit. Mi chiedo: possiamo lasciare che ci sia una formazione di serie B alla quale deleghiamo intere classi sociali del nostro Paese? È un compromesso al ribasso, antidemocratico, che mi offende. Dobbiamo reagire, aumentando per i ragazzi talentuosi la possibilità, attraverso il diritto allo studio e l’investimento sull’università, di realizzare le loro vite.

Sul fronte dell’internazionalizzazione mandiamo molti studenti all’estero, ma ne accogliamo pochi. Cosa limita l’arrivo degli studenti stranieri?

Dobbiamo migliorare nella nostra capacità attrattiva. Abbiamo tanti italiani che fanno dottorati all’estero, ma fatichiamo ad accoglierne altrettanti. Il problema è che i nostri corsi di laurea sono rigidi, organizzati rigidamente per disciplina. All’estero i percorsi sono più interdisciplinari. Insomma, dobbiamo diventare più “indisciplinati”, più flessibili.

Dunque serve una riforma.

Decisamente sì. Dovremmo avere più insegnamenti in lingua inglese, e meno regole e vincoli. Meno italianità, da questo punto di vista, non guasterebbe.

Le nostre università preparano bene i giovani al lavoro? 

I dati ISTAT dicono di sì: a tre anni dalla laurea i laureati guadagnano in maniera significativa di più rispetto a chi non ha un titolo terziario. Dunque l’ascensore sociale c’è e funziona, se si pensa che più della metà degli studenti non ha nessuno dei due genitori laureati. Occorre comunque rafforzare l’alleanza con il sistema delle imprese, per fare in modo che il dialogo con queste ultime sui fabbisogni produttivi sia costante e che la formazione sia valorizzata anche dal punto di vista retributivo.

Si assiste a una progressiva concentrazione degli studenti in città come  Milano, Roma, Bologna e a un progressivo spopolamento delle altre università. A questo si aggiunge la concorrenza degli atenei telematici. È fisiologico? Oppure è una situazione patologica?  

È un problema di cui farci carico senza indugio. Spesso gli atenei, in tanti centri, sono l’unico baluardo che fa da catalizzatore ad eventi civili e politici, e rappresentano per il territorio qualcosa di insostituibile. Il sistema universitario deve andare nei territori e fare un’alleanza con i sindaci, stimolando una maggiore apertura. Occorre fare in modo che la cultura, la scienza e le opportunità che si devono dare ai ragazzi e alle ragazze talentuosi, indipendentemente dallo stato sociale, siano realizzate. Questa si chiama coesione sociale e democrazia.

L’investimento economico dello Stato è sufficiente ed è adeguatamente distribuito? 

Sulla distribuzione abbiamo criteri abbastanza consolidati. Il problema è che la nostra Repubblica, storicamente, quindi indipendentemente da questo governo, nell’università ha sempre investito poco, intorno all’1% del Pil, quando l’UE si è data come target il 3% entro il 2030. Dunque siamo molto indietro. Quest’anno c’è stato un aumento del Fondo di finanziamento ordinario e questo va salutato con gioia; occorrono però più investimenti privati, l’industria deve investire di più in ricerca e sviluppo.

Una sinergia deficitaria ma irrinunciabile, si direbbe.

Sì, perché la formazione del capitale umano e l’innovazione tecnologica sono i due motori della crescita e hanno la “miccia” all’interno degli atenei. L’università non è un luogo in cui docenti parlano di se stessi,  ma il principale motore dell’innovazione e della coesione sociale, e quindi di democrazia nel Paese.

(Max Ferrario)

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