Sembra non avere fine la guerra commerciale tra Usa e Cina, che può avere conseguenze anche per la manifattura europea
La guerra dei dazi ricomincia e vede l’un contro l’altro armati gli Stati Uniti e la Cina. Sembrava in pausa, almeno nell’immediato, con l’accordo raggiunto a giugno che lasciava a Pechino ampio spazio per esportare negli Usa microprocessori e terre rare. Una soluzione favorevole ai cinesi, persino troppo secondo la maggior parte degli osservatori, a cominciare dagli europei. Forse Donald Trump si è accorto di aver sbagliato, fatto sta che ora minaccia tariffe del 100% praticamente su ogni prodotto che proviene dalla Cina a partire dal primo novembre. La mossa rischia di far saltare il vertice con Xi Jinping previsto in Sud Corea. Che cos’è successo?
Il ministro cinese del commercio Wang Wentao accusa l’Amministrazione americana: dopo che è stata firmata l’intesa, Washington ha messo sotto tiro le imprese del Dragone rosso, comprese le navi che attraccano nei porti americani, introducendo una serie di restrizioni e stilando una lista nera di imprese cinesi da colpire. “Noi non vogliamo combattere, ma non abbiamo paura”, ha detto Wang minacciando a sua volta ritorsioni.
Gli Usa denunciano che la Cina ha introdotto una serie di controlli sulle terre rare e le tecnologie a esse collegate per difendere la propria sicurezza, una scelta che rispecchia quella americana e quasi scimmiotta le regole introdotte alla fine dello scorso anno sul made in Usa a cominciare dai microprocessori.
Lo scambio di accuse su chi ha cominciato per primo assume toni spesso caricaturali, ma lo scontro è di primaria importanza: la posta in gioco è il controllo di settori industriali strategici. Gli americani sono convinti che la Cina possa dominare la catena produttiva dei chips, i cinesi non vogliono essere tagliati fuori in un settore di vitale importanza. Entrambi fingono di negoziare, poi sotto banco rimettono tutto in discussione.

La pressione di Washington si estende ben al di là dei confini e viene esercitata anche su altri Paesi a cominciare da quelli europei. Lo si vede in Italia dove il Governo è intervenuto con un intervento legislativo per “sterilizzare” la governance cinese nella Pirelli: la China Chem ha la maggioranza della proprietà, ma non comanda, il timone è nelle mani dell’azionista di minoranza che fa capo a Marco Tronchetti Provera. Una situazione che non potrà durare a lungo.
Il Governo Meloni è sollecitato di fare in modo che i cinesi vendano. Lo stesso nel settore elettrico dove Pechino è intervenuto nel 2014 acquistando il 35% di Cdp reti per 2,1 miliardi di euro (accordo confermato due anni fa).
Più in generale, il braccio di ferro sino-americano rappresenta un pericolo per l’industria manifatturiera e l’intera economia italiana la quale vede chiudersi le porte dei suoi due principali mercati extraeuropei che hanno tirato negli anni scorsi le esportazioni. Diventa vitale, dunque, una sterzata verso l’economia interna. Vedremo la prossima settimana quando verrà varata la manovra per il 2026, ma da quel che si sa il contributo della politica fiscale alla crescita oscilla tra zero e un decimale di punto.
È chiaro che una nuova offensiva protezionista non può che peggiorare le prospettive, mentre restano appese ritorsioni americane contro beni europei e italiani, ultima la pasta minacciata di una tariffa del 107%. Trump non si ferma, pressato da una parte del suo elettorato, dagli ideologi dei dazi, dalla necessità di rastrellare denaro per finanziare la riduzione delle imposte, mentre il braccio di ferro sull’indebitamento federale sta bloccando l’Amministrazione pubblica in uno dei più lunghi shutdown. Un groviglio di problemi e contraddizioni interne che si scaricano all’esterno.
La tensione con la Cina ha fondamento, sia chiaro, ma in qualche modo rappresenta un risveglio degli americani dal sogno di poter mantenere il proprio primato tecnologico e militare senza concedere nulla a nessuno, nemmeno agli alleati.
È ormai chiaro che nuove potenze, a cominciare da quella cinese, hanno raggiunto livelli economici e tecnologici tali da poter tener testa e sfidare l’egemonia americana persino in quello high tech nel quale gli Usa hanno mantenuto la leadership fin dall’inizio della rivoluzione digitale negli anni ’80 del secolo scorso. Un esempio chiarissimo viene dalla stessa intelligenza artificiale, è bastato che una start up cinese come DeepSeek introducesse una versione aperta, più snella e semplice da usare come per far tremare Nvidia e OpenAI.
Così come è accaduto con Gaza e come probabilmente dovrà accadere anche in Ucraina, gli Stati Uniti debbono assumersi le loro responsabilità internazionali, abbandonando l’idea di potersi chiudere nel proprio splendido isolamento e lasciare a se stessi gli alleati, senza tener conto dei nuovi equilibri internazionali. Il popolo MAGA deve farsene una ragione. Ma il primo a doverci ragionare a fondo e senza rodomontate, è proprio il Presidente americano.
Davvero può credere che la scelta vincente sia una guerra permanente su tutti i fronti a cominciare dal commercio mondiale?
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
