L’“affaire Vincent Lambert”, così viene chiamata in Francia la drammatica vicenda umana, medico-legale e giudiziaria dell’infermiere che nel settembre del 2008 rimase vittima di un grave incidente stradale. Uscito dal coma post-traumatico, è rimasto per oltre dieci anni in una condizione neurologica stabilizzata, diagnosticata dalla maggior parte degli specialisti che hanno preso in considerazione il suo caso come “di coscienza minima” (état pauci-relationnel o état de conscience minimal plus) e solo da pochi altri (contestati su base clinica dai colleghi) come “vegetativo cronico” (état végétatif chronique). Più correttamente – seguendo la recente classificazione nosologica – si dovrebbe dire con paralisi cerebrale (tetraplegia) e in stato di “veglia non responsiva”.
Il signor Lambert, 42 anni e mezzo di età, ha perso le ordinarie capacità relazionali con il mondo esterno, ma – stando ai dati obiettivi rilevabili neuropsicologicamente – nulla possiamo sapere di certo sulla “coscienza interna” o “profonda” che persiste. Il principio di tutela della vita umana e quello di precauzione, alla base di ogni etica medica (laica o confessionale che sia), impone dunque che si agisca secondo il favor vitae: deve essere trattato al pari di ogni altro paziente, nulla facendo e nulla omettendo quanto alla sua presa in carico da parte del servizio sanitario e alla sua cura che sia diverso da ciò che è clinicamente ed eticamente dovuto a ciascun malato, per quanto gravi siano le sue condizioni fisiche e psichiche. Inoltre, la sua respirazione non è assistita da alcuna ventilazione meccanica e il suo cuore batte spontaneamente. Ogni altra funzione fisiologica essenziale per la vita è presente.
Secondo la legge francese (e anche, tra le altre, quella italiana) non può essere dichiarato “morto” né secondo il criterio cardiocircolatorio-respiratorio, né secondo quello neurologico (cerebrale). Vincent non è un paziente in “stato terminale” né un morente in agonia o pre-agonia. Un gruppo di 70 medici francesi che hanno indipendentemente esaminato i suoi dati clinici nella primavera dello scorso anno (e, a tutt’oggi, risultano essenzialmente immutati) ha dichiarato che “è evidente che Vincent Lambert non è in fin di vita” e le sue condizioni cliniche, pur gravi, sono abbastanza stabili (testo pubblicato da Le Figaro, 18 aprile 2018).
Di una sola cosa egli abbisogna, ed è imprescindibile per continuare a vivere: essere idratato e nutrito, ma non per via orale (e quanti pazienti nei nostri ospedali o a domicilio sono ogni giorno idratati per via enterale o parenterale!). Senza che la forma e la modalità clinica di somministrazione di fluidi fisiologici e di nutrienti – nel suo caso attraverso una gastrostomia endoscopica percutanea (Peg) – gli provochi dolore o nocumento. Anzi, è vero il contrario: per esempio, la disidratazione anche parziale sarebbe causa di disconforto e di pena.
Come hanno dichiarato gli stessi periti clinici nominati dal tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne in una relazione datata 22 novembre 2018, questa “risposta [assistenziale] ai bisogni fondamentali primari (alimentazione, idratazione, escrezione, prevenzione cutanea, igiene di base) non configura, per certi pazienti in stato vegetativo comprovato, come per Vincent Lambert, un accanimento terapeutico [acharnement thérapeutique] o una ostinazione irragionevole [obstination déraisonnable]” (Rapport, pagina 24), ma rappresenta la cura ordinaria e appropriata che è clinicamente e moralmente dovuta ad ogni paziente ricoverato in un ospedale o assistito a domicilio.
Su loro richiesta, il Tribunale amministrativo francese competente, alla fine di gennaio del corrente anno, aveva autorizzato i medici del Centre Hospitalier Universitaire (Chu) di Reims a interrompere l’idratazione e la nutrizione di Vincent. Il Consiglio di Stato d’oltralpe aveva confermato la decisione e la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) respinto la richiesta dei suoi genitori di non agire in tal senso. Oltre alle innumerevoli istanze presentate a diverse autorità francesi da cittadini e associazioni della République, il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità ha chiesto alla Francia di sospendere la decisione di sospendere i sostegni vitali al signor Lambert e Papa Francesco – ricordandolo insieme al piccolo Alfie Evans – già un anno fa ha affermato con forza: “Vorrei ribadire e confermare che l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine naturale è Dio. Il nostro dovere è fare di tutto per custodire la vita” anche di un malato come lui. Più recentemente, il Santo Padre era ritornato sulla vicenda di Vincent nel suo profilo Twitter: “Preghiamo per quanti vivono in uno stato di grave infermità. Custodiamo sempre la vita, dono di Dio, dall’inizio alla fine naturale. Non cediamo alla cultura dello scarto”, ha scritto (20 maggio 2019).
Lunedì mattina, al Chu erano iniziate le procedure per togliere la vita a Vincent, subito dopo che la moglie era stata avvertita dai sanitari tramite un messaggio e-mail (sic!). Neanche il coraggio di guardarla negli occhi, di dirle una parola personalmente, alla faccia dello sbandierato “dialogo medico-paziente” su cui tanto si scrive e si organizzano seminari e conferenze. Dopo la sedazione terminale, è stata sospesa la somministrazione di liquidi fisiologici. Non sarebbe stato possibile prevedere dopo quanto tempo il cuore di Vincent avrebbe cessato di battere, ma una cosa è certa: non sarebbe morto per cause direttamente dovute alla sua patologia neurologica, ma per disidratazione e inanizione. E questo non in uno sperduto centro sanitario di un povero villaggio africano dove mancano le sacche per flebloclisi e per nutrizioni parenterali, ma nel modernissimo e ben dotato ospedale universitario di una città della Francia.
Poi, sorprendentemente, alla sera dello stesso giorno è giunta da Parigi la notizia che la Corte d’appello aveva chiesto ai medici del Chu di Reims di interrompere il protocollo eutanasico e riprendere a idratare e nutrire il malato. I giudici francesi hanno ceduto di fronte alla reiterata richiesta del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità che il 17 maggio, in risposta alla replica del Governo francese, aveva ribadito l’ingiunzione a non privare il paziente dei supporti vitali. Ora il signor Lambert sarà risvegliato dalla narcoanalgesia che gli era stata applicata perché non provasse dolore mentre veniva eutanasizzato per disidratazione e inanizione e potrà continuare a vivere. Per quanto ancora non lo sappiamo: la decisione è appesa alla speranza che il Comitato dell’Onu esprima rapidamente un parere definitivamente favorevole alla vita di Vincent e il Governo francese lo faccia rispettare dai medici di Reims che avevano iniziato le procedure per toglierla.
Fin qui i (mis)fatti. Ogni commento è superfluo, per un credente (di qualunque fede) e per un “laico”, purché educati a usare la ragione come apertura integrale alla realtà, a tutta la realtà della vita umana, secondo ogni suo fattore costitutivo. Senza censurare nulla. E con un briciolo di moralità che lo porti, almeno tentativamente, ad amare la verità della vita – anche quella malata, sofferente, apparentemente “inutile” – più di quanto sia legato all’idea che di essa si è costruito mentalmente o ha ricevuto dall’opinione altrui, attraverso i mezzi di comunicazione o le discussioni a scuola, in ufficio o davanti a una tazza di caffè. Un uomo e una donna davvero liberi hanno già giudicato quanto è accaduto in queste ore a Vincent nella sua stanza al Chu di Reims: il loro cuore non può mentire e la loro bocca non può tacere.
Resta solo questo: siamo (veramente) disposti a mettere da parte – almeno per una volta, ma dovrebbe essere così sempre – il (falso) timore reverenziale verso i potenti delle politiche sanitarie nazionali ed europee che vogliono imporre l’agenda dell’eutanasia anche dei disabili gravi come Vincent, i giudici che pronunciano sentenze inique, i medici (sinora pochi, grazie al cielo) che si sostituiscono a Dio come padroni della vita anziché esserne gli umili servitori, e la “cultura della morte” (l’espressione è di San Giovanni Paolo II) dominante, imposta dai mass media nelle società occidentali? Siamo disposti a non trincerarci dietro il borghese “dialogo con chi non la pensa come noi”, “evitare lo scontro dialettico”, “non giudicare le azioni degli altri” (cosa ben diversa dal giudicare la persona) per coprire la nostra autocensura nei confronti dei crimini contro la vita umana, in ogni circostanza e nei confronti di qualunque uomo, donna, bambino o non ancora nato?
Gesù, nel Vangelo, ci ha ammoniti: “Il vostro parlare sia: ‘Sì, sì; no, no’; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Il contrario del “politicamente corretto”, laico o ecclesiastico che sia. Quello che è accaduto a Reims (e che potrebbe accadere anche in Italia e in altri Paesi europei se saranno approvate leggi sulla legalizzazione dell’eutanasia), ha un solo nome: omicidio intenzionale. San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae – con parole sino ad oggi immutate nel Magistero pontificio della Chiesa – ha così definito l’eutanasia: “Un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte” di un malato. E ha aggiunto: “Confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale” (n. 65).