Appendino (M5s) ha ha forti divergenze con Conte. Ma anche nel Pd i riformisti sono insofferenti di Schlein, oltre a Landini. Manca un federatore
Si sta preparando la stagione cambiamenti nell’opposizione alla Meloni. Le elezioni regionali daranno come risultato molto probabile la conferma delle coalizioni uscenti, segnando anche un arretramento importante della partecipazione al voto e con essa la riduzione dei consensi per i 5 Stelle. Il Partito democratico potrà festeggiare probabilmente solo le vittorie guidate da esponenti più riformisti. Il che aprirà una fase di profonda meditazione in entrambi i partiti.
Se oramai è chiaro che Schlein dovrà affrontare le critiche dei riformisti che la vedono sempre più appiattita sulle posizioni del vero capo della sinistra massimalista, ovvero Landini, i 5 Stelle iniziano a manifestare una dinamica dei partiti più classici.
Chiara Appendino ha espresso una critica alla posizione del leader Giuseppe Conte, accusato di aver portato il M5s a fungere da stampella a quelli che erano i nemici di un tempo. Il tutto con l’obiettivo di vincere.
E questa sarà probabilmente la vera riflessione che si dovrà aprire. O costruire un campo largo ampio, ma che al contempo sacrifica l’identità, con la finalità di essere coeso e contendere alla Meloni la leadership, oppure fare una scelta di profonda rivendicazione delle proprie identità e spaccarsi, ritornando a litigare.
Al momento la seconda ipotesi appare più probabile, viste le ambizioni di Landini di diventare capo assoluto della sinistra senza confronto con nessuno. Il segretario della Cgil dialoga male con i riformisti moderati, non presenta a progetti di reale coesione con le istanze del ceto medio, insegue ripetutamente lo schema di una rivalsa sociale del proletariato sulla classe a suo dire dominante.
I 5 Stelle, per altro verso, hanno ormai perso i loro nemici storici. L’ultimo tabù è stato l’appoggio di De Luca, loro acerrima antitesi. E così molta parte di quell’elettorato che si era risvegliato grazie a Beppe Grillo, ora è tornato a dormire.
Quel che manca è una visione comune unitaria di che cosa serve al Paese e quali sono le dinamiche economiche e sociali che si vogliono attivare per poter sconfiggere la Meloni. Manca una visione unitaria e coesa in grado di assegnare un ruolo a ciascuno dei partiti, dei movimenti e delle sensibilità che si muovono nel campo largo.
Certo, le vittorie alle regionali porteranno linfa alla pianta di chi vuole cogliere i frutti di una ipotetica vittoria, ma rischia di non bastare. Le spinte identitarie interne a ciascuno dei partiti stanno dilaniando i rapporti e mettendo profondamente a rischio le leadership attuali, che mai come ora appaiono indebolite, non tanto dal calo di consensi quanto dall’incapacità di presentare un progetto politico alto e comprensibile.
L’agenda appare segnata, si attenderanno i risultati della Campania e della Puglia per poi avviare le riflessioni interne e quello che verrà fuori potrebbe essere un nuovo quadro, governato da nuovi attori. Con i riformisti che tenteranno di riprendere in mano il Pd, e la corrente identitaria dei 5 Stelle che tenterà di riportare al centro dell’ex Movimento le proprie motivazioni originarie.
Ma il punto è che entrambe queste aree fanno molta fatica a dialogare tra di loro e difficilmente riusciranno a stare assieme. Solo un federatore di altissimo profilo e grande contenuto politico potrebbe tentare di tirare le fila di tutto questo magmatico mondo e ridare dignità politica all’opposizione, costruendo una visione unitaria che abbracci tutte queste forze distinte.
Il venir meno del collante rappresentato dal conflitto israelo-palestinese e dalla volontà di presentare liste comuni alle regionali farà sfaldare sempre di più le fragili assi di legno con le quali si è costruito un contenitore largo, ma poco solido. Fossero state assi di legno d’ulivo, ben inchiodate tra loro, forse avrebbero retto di più. Ma non è più quello il tempo. O almeno non ancora.
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