Se Giorgia Meloni aveva bisogno di una conferma, il Consiglio europeo di giovedì e venerdì l’ha data: l’Europa rimane un nervo scoperto per lei e per la sua leadership. E potrebbe trasformarsi sempre più in un problema. Il veto opposto da Ungheria e Polonia all’implementazione dell’accordo di giugno sui migranti ha profondamente deluso la premier italiana, anche se ha fatto buon viso a cattivo gioco. Si tratta di un no al meccanismo automatico alle ricollocazioni obbligatorie (in alternativa si paga) che brucia due volte perché venuto dai governi considerati più vicini politicamente a quello italiano.
Difficile non vedere il no di Morawiecki e Orbán come la conferma della difficoltà di sommare i nazionalismi. A questo problema si assommano lo stallo sulla rinegoziazione del Patto di stabilità (senza intese a fine anno si torna alle politiche economiche di austerità pre Covid) e il rinvio di 4 mesi della ratifica italiana del Mes, con il quale la Meloni guadagna altro tempo. Unica eccezione l’ok unanime al tentativo italiano di sorreggere la Tunisia, prima che sia troppo tardi e la situazione sfugga completamente di mano, con il prevedibile conseguente moltiplicarsi delle ondate migratorie attraverso il Mediterraneo.
Al quadro dei rapporti tutt’altro che idilliaci con l’Europa va anche aggiunto il mancato sblocco dell’erogazione della terza rata del Pnrr. La situazione è ormai abbastanza pirandelliana: Roma preme, senza mostrarlo troppo pubblicamente, Bruxelles frena, perché consapevole che negare quei fondi significherebbe certificare che l’Italia ha mancato troppi obiettivi del piano Next Generation Eu. Un fallimento che nessuna delle due parti può permettersi, anche perché il nostro paese ha fatto di tutto per essere il principale destinatario delle risorse di Ngeu.
A undici mesi dalle prossime elezioni europee, la Meloni si trova quindi in una fase di difficoltà. Il suo sogno di dar vita a una maggioranza imperniata su un’alleanza fra i suoi conservatori (Ecr) e i popolari (Ppe) rischia di infrangersi sulla debolezza dei suoi alleati europei (cechi e polacchi, in primo luogo), e sulla evidente difficoltà di esprimere un indirizzo politico sufficientemente omogeneo. Naturalmente c’è anche un problema numerico: ad oggi la somma fra Ppe e conservatori è assai distante dalla maggioranza assoluta a Strasburgo. E per di più non è immaginabile un ribaltamento dei numeri nel Consiglio europeo (quello dei capi di Stato e di governo), neppure se dalle elezioni spagnole fissate per il 23 luglio uscisse una chiara maggioranza di Popolari e Vox. Su 27 Stati, oggi solo otto hanno un capo del governo popolare e tre conservatori, con i due Stati, Germania e Francia, guidate rispettivamente da un socialista, Scholz, e un rappresentante di Renew Europe, Macron.
In questo quadro di incertezza europea si è inserito Matteo Salvini. Stando in Europa nel gruppo Identità e Democrazia con le “scomode” compagnie di Marine Le Pen e dei tedeschi di AfD, il leader della Lega ha tentato la mossa del cavallo: proporre agli alleati di coalizione un patto scritto per muoversi insieme nel prossimo Europarlamento, partendo dalla pregiudiziale del no al governo con i socialisti. È un tentativo di mettere sotto pressione soprattutto Forza Italia, che fa parte del Ppe e quindi oggi governa l’Europa con il Pse.
Salvini si è mosso per primo, dimostrando di avere consapevolezza dell’importanza della partita. Spera forse di ricevere un invito a entrare in uno dei due gruppi moderati, e intanto comincia ad invocare una maggioranza alternativa. Inviti che sinora non sono arrivati. Ma anche Meloni e Tajani dovranno rispondere alla sua proposta. Lo sfrangiamento della maggioranza a livello continentale sarebbe un punto debole su cui le opposizioni di certo affonderebbero il colpo. Al contrario, trovarsi nella stessa metà campo di gioco darebbe maggior forza alla posizione italiana.
La partita a scacchi dell’Europa è appena cominciata e va tenuta d’occhio. Per il Governo e per la maggioranza c’è in gioco tantissimo.
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