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Home » Esteri » Europa » VON DER LEYEN, STATO DELL’UNIONE 2025/ Tutte le ricette sbagliate di un “rito” fuori stagione

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VON DER LEYEN, STATO DELL’UNIONE 2025/ Tutte le ricette sbagliate di un “rito” fuori stagione

Stefano Fassina
Pubblicato 11 Settembre 2025
Von der Leyen

Ursula von der Leyen durante il "discorso sullo stato dell'Unione" (Ansa)

Il "discorso sullo Stato dell'Unione" di Ursula von der Leyen è stata la ripetizione di ricette dannose e illusorie dannose per tutti gli Stati europei

Per tentare una valutazione politica sensata dell’intervento della presidente Ursula von der Leyen ieri al Parlamento europeo, è necessaria una premessa. Il discorso sullo Stato dell’Unione (Europea) compare per la prima volta nei circuiti di Bruxelles-Strasburgo nel 2010.

Allora, officiante era José Manuel Barroso, presidente pro-tempore della Commissione. Si celebra in conseguenza dell’Accordo quadro raggiunto nello stesso anno tra la Commissione e il Parlamento europeo. È il momento, sulla carta, dell’accountability e della presentazione dell’agenda annuale. Emula, nella prospettiva favolistica degli Stati Uniti d’Europa, l’analogo passaggio svolto a ogni inizio d’anno al Congresso degli Stati Uniti.


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Era il tentativo da parte di Parlamento e Commissione, l’uno marginale, l’altra servente il Consiglio dei capi di Stato e di Governo dell’Unione, di auto-convincersi e convincere le opinioni pubbliche nazionali dell’esistenza in vita e dell’inarrestabile divenire di una sorta di federazione di fatto, nonostante gli incidenti di popolo occorsi nel 2005 in Francia e Olanda nei referendum per l’approvazione della “costituzione” europea.


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È divenuto un rito fuori stagione. Contraddice la realtà. La fine della “fine della Storia” e il ritorno della politica, anche nella sua forma estrema – la guerra – hanno ridato protagonismo assoluto agli Stati nazionali. La Commissione è un servizio del Consiglio dei capi di Stato e di Governo. La presidente può esserne portavoce, la faccia da esporre per le cerimonie imbarazzanti (come l’inginocchiamento al presidente Trump al golf resort in Scozia nella resa incondizionata sui dazi).

Ma non è un limite soggettivo di Ursula. È la forza delle cose. Nei giorni scorsi la presidente, nel suo tour degli Stati membri ai confini con la Russia nella postura di Commander in chief, aveva rivelato l’esistenza di “piani piuttosto precisi” per potenziali dispiegamenti militari in Ucraina e una “chiara tabella di marcia” per svolgerli.


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Nel giro di poche ore, il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, le ha fatto presente che “l’Unione Europea non ha alcuna responsabilità né competenza quando si tratta di schierare truppe”.

In sostanza, l’illusione della centralizzazione tecnocratica è evaporata. Nel ritorno della politica, il discorso sullo Stato dell’Unione e il dibattito a seguire nell’emiciclo di Strasburgo sono “soltanto” indicatori dell’orientamento prevalente tra le élites europee e del confronto tra i principali governi (sempre meno, ahimè, tra le famiglie politiche).

Il fiume di parole della von der Leyen, dei suoi (pochi) sostenitori e di larga parte dei suoi (tanti) critici conferma il dato politico, morale, finanche spirituale del tornante storico: la scarsa consapevolezza del tramonto della centralità dell’Occidente.

È fuori stagione la ricetta geopolitica. La presidente della Commissione sulla guerra in Ucraina, dopo l’incontro in Alaska tra il presidente degli Stati Uniti e il suo pari grado al Cremlino, riconosce la necessità del negoziato. Ma nella retorica, la pace “giusta e duratura” rimane. Anzi, dato che le opinioni pubbliche proprio non si riescono a impaurire a sufficienza, arrivano tempestivi da Mosca i droni abbattuti la scorsa notte al di qua del confine polacco.

Poi, immancabile nel repertorio, l’invocazione del voto a maggioranza sulla politica estera e di sicurezza. Nessun capo di Stato o di Governo, nessun popolo, lo propone o lo accetterebbe. Nel dibattito, lo raccoglie soltanto la capo-delegazione di Renew Europe, il raggruppamento voluto da quell’Emmanuel Macron delegittimato e assediato in casa.

Sarebbe uno stravolgimento delle nostre già malandate democrazie in assenza di una costituzione condivisa. Ma l’omaggio all’euro-federalismo si porta sempre, anche in un contesto dove gli Stati nazionali, a partire dalla Germania, rigettano l’incremento minimale del bilancio comune 2028-2034.

Intanto, sul campo, l’esercito russo avanza e il popolo ucraino continua a soffrire e a morire. Nessun riferimento, nel discorso, alla possibilità di collocare la drammatica vicenda ucraina nel contesto della costruzione di un ordine internazionale multilaterale per la sicurezza comune.

Quindi, nessun richiamo alla conferenza della Shangai Cooperation Organization (SCO), a Tianjin, il 31 agosto e 1 settembre scorso, dalla quale è tornata martellante, come dalle periodiche riunioni dei BRICS, la richiesta di dialogo con l’Occidente e la proposta di riforma delle istituzioni della governance internazionale: dalle Nazioni Unite al FMI.

L’unico accenno all’incontro della SCO è stato rivolto alla parata di Pechino nell’ottantesimo anniversario della liberazione della Cina dall’occupazione giapponese. Il sottotesto è chiarissimo: noi, i campioni della democrazia, della libertà, del rispetto dei diritti umani, contro le dittature. Ma la caduta di credibilità morale dei sedicenti primi della classe è inarrestabile di fronte alla carneficina a Gaza. Per provare a frenarla, qualche timida proposta di sanzioni e di sospensione parziale di accordi commerciali.

È fuori stagione la ricetta economica. La parola d’ordine rimane “competitività”, il totem esplicito del “Rapporto Draghi” e implicito del ricettario di Enrico Letta. Ma il nodo soffocante dell’economia del continente è la produttività. Non sono sinonimi. Attraverso la svalutazione del lavoro siamo stati competitivi. Abbiamo accumulato avanzi di bilancia dei pagamenti per trilioni di euro. Anche l’anno scorso, il saldo dell’UE con il resto del mondo è stato attivo per l’1,6% del suo Pil.

La produttività, invece, è anemica da decenni “grazie” all’impianto ordoliberista dell’Unione e al suo sleale e feroce mercato unico. La produttività non si alimenta con la mortificazione dei redditi della classe media e delle periferie sociali. Anzi, la svalutazione del lavoro scoraggia la coltivazione delle sue determinanti: le persone, innanzitutto, insieme alla ricerca e all’innovazione, agli investimenti pubblici e privati, materiali e immateriali. Continua a dominare il mercantilismo.

Così, chiuso o semichiuso un mercato, se ne trova un altro. Il registringimento dell’export negli USA dovrebbe essere compensato dall’aumento delle vendite nel Mercosur, l’area doganale tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. Ma chi ne beneficerebbe? Il mitico consumatore dell’economia mainstream? Dove sono le analisi costi-benefici?

Nelle réclame, il celebrato accordo con i 4 Stati sudamericani dovrebbe avere un effetto potenziale di qualche decimo di punto della produzione complessiva UE. Ma gli effetti distributivi sarebbero notevoli. Come sempre, pagherebbero “i piccoli”. Le big corporations, quelle che pagano il lussuoso forum di Cernobbio ai loro manager, si gonfierebbero ancor di più.

Ieri, una pur impotente, ma consapevole presidente della Commissione avrebbe dovuto richiamare i governi alla svolta keynesiana: sostegno alla domanda interna europea, mobilitazione delle risorse attraverso debito comune, politica monetaria accomodante per la sostenibilità dei debiti nazionali. Invece, si insite sull’ulteriore allargamento dell’UE. Infine, soltanto un vuoto invito al “buy European” per tener buono il target parlamentare dei “sovranisti” di maggioranza. Lo Stato dell’Unione è sempre più preoccupante.

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Tags: Ursula Von Der LeyenDaziMario DraghiEnrico LettaDonald TrumpEmmanuel Macron

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