Un esordio esplosivo per la band di Thom Yorke, un brano che, anche se giudicato deprimente dalle radio, trascinerà al successo l'album d'esordio "Pablo Honey", datato 1992. Il racconto di WALTER GATTI
Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti. Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare. Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.
Thom Yorke ha compiuto quarant’anni due mesi fa. La sua band, i Radiohead, è in circolazione dalla seconda metà degli anni Ottanta. Sono in cinque, si conoscono a Oxford e quasi tutti si laureano. Sono teste fini e crescono musicalmente ascoltando Pink Floyd, Soft Machine e Gong.
Il loro esordio è indissolubilmente legato a una canzone, uno dei più esplosivi esordi del rock: Creep. Brano che getta al macero l’esser belli degli anni Ottanta e Novanta, quell’essere stilisticamente perfetti e inutili, stupendi e vuoti, impalpabilmente deserti, prodotto inattaccabile del nulla. Una canzone che prima sussurra e poi ulula: «Quando tu eri qui prima, non riuscivo a guardarti negli occhi. Tu sei come un angelo, la tua pelle mi commuove, tu svolazzi come un piuma, in un mondo meraviglioso, e io avrei voluto essere speciale, perché tu sei così maledettamente speciale. Ma io sono una persona sgradevole, sono uno strano, cosa diavolo sto facendo qui? io non appartengo a questo posto». Ecco fatto, il mondo del look e dell’apparire mandato al diavolo. Ma più in genere il mondo dei rapporti umani, dell’uomo-donna, di quell’eterno gioco del rincorrersi, del corteggiarsi, del perché corteggiarsi.
E ancora di più: il luogo a cui appartengo, il “ciò” a cui appartengo, la domanda del “di chi sono io?”.
Yorke la pensa come una canzone amara, ma sostanzialmente intimista. È il chitarrista Jonny Greenwood, classe ’71, a trasformarla, irrompendo sul ritornello con una chitarra violenta e distorta, mettendo Creep su un piano diverso, portando l’ascoltatore su un segmento esistenziale diverso, acido, aspro, veemente.
Quando esce diventa un successo mondiale e traina il primo album della band, “Pablo Honey”, ai vertici delle classifiche un po’ ovunque. Un esordio così fulminante che per anni i fans continueranno a chiedere a gran voce Creep, finché – nel 1998 – Yorke e compagni decideranno di eliminare la canzone dai propri concerti. Dopo quegli esordi i Radiohead diventano una band di culto: metà Pink metà U2, tragicamente desolati nella loro descrizione del vuoto quotidiano, i cinque britannici alternano dischi accessibili e “per tutti” come “Ok Computer” a esempi di avant-garde rock come “Amnesiac”, dove le influenze elettroniche e classiche sono probabilmente superiori alle stesse influenze rock.
Più tardi Creep rientrerà in scaletta, ma sommersa dalle non-canzoni, dalle visioni sonore sempre meno standard e sempre più cerebrali.
Io li considero importanti, i Radiohead. Il loro tentativo di non volgarizzare la musica rock è… nobile e ha aperto la strada per decine di altre band “difficili”, come gli imperdibili Mars Volta. Però credo che Creep rimanga l’esempio migliore di creatività Radiohead: una band dalle grandi visioni, ma che nella loro canzone più facile ha dato il meglio di se. Proprio nel momento della nascita….
