FINE VITA/ Serve una buona legge, non “inquisitori” laici

- Gianfranco Amato

Il Parlamento si troverà presto ad affrontare il tema delle Dichiarazioni anticipate di trattamento, tema così delicato dopo il dramma di Eluana Englaro. Ecco perchè farebbe bene a rivedersi la sentenza del Tribunale di Milano

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È giunta in discussione alla Camera dei deputati la proposta di legge sulle «disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento». Quello che impropriamente viene definito “testamento biologico”.

 

Ancora una volta il Parlamento si troverà ad affrontare il delicatissimo tema a seguito del dramma di Eluana Englaro e dell’interpretazione creativa di certa magistratura. Ancora una volta a coloro che saranno chiamati a legiferare in materia, suggeriamo vivamente la lettura del decreto 9 luglio 2008 emesso dalla I Sezione civile della Corte di Appello di Milano, in cui è stato disposto l’«accudimento accompagnatorio alla morte» di Eluana Englaro, e in particolare quella parte del decreto in cui si viviseziona il senso religioso della povera Eluana.

Acquisita, infatti, come prova l’appartenenza della ragazza alla Chiesa cattolica, i magistrati hanno assunto la pretesa di valutarne l’effettivo grado di “cattolicità”. La corte ha ritenuto che le proprie tesi sulla sospensione dell’idratazione e alimentazione non siano state confutate dalla circostanza che «Eluana, secondo l’opinione espressa dall’Ufficio del Pubblico Ministero nel suo parere conclusivo, avrebbe avuto una “formazione religiosa” e una “impostazione conforme a quella della religione cattolica”».

Per i giudici, infatti, «non è chiaro come la pura e semplice rilevazione del fatto che Eluana avesse un credo religioso potrebbe contraddire un’interpretazione della sua volontà già compiuta e ritenuta corretta alla stregua di tutti gli altri elementi di giudizio».

Giacché, però, appare innegabile la sua connotazione religiosa, la Corte argomenta: «Ma poi, anche a voler dare il massimo rilievo possibile a questo particolare aspetto (della “impostazione cattolica”) concernente la sfera religiosa di Eluana, mancano comunque i necessari elementi, sia sul piano generale ed astratto, che particolare e concreto, per considerarlo antinomico rispetto alla personalità indipendente e alle convinzioni ed idee di Eluana sulla vita e sulla dignità individuale».

Forse i magistrati – unici in Italia – erano all’oscuro e ignoravano del tutto le posizioni della Chiesa cattolica sul delicato tema. E quindi continuano: «Così, deve segnalarsi anzitutto come non risulti affatto chiarito, nel citato parere del P.M., sotto quale profilo la formazione religiosa cattolica avrebbe potuto implicare per Eluana una scelta contraria all’interruzione del trattamento di sostegno alimentare artificiale».

Per superare il salto logico la corte si avventura in un terreno minato. Ritiene, innanzitutto, che l’essere cattolici «non può certo basarsi in via meramente astratta su quelli che potrebbero essere in via generale sulla problematica in oggetto i canoni e le regole morali della Chiesa cattolica» in quanto «ciascuno, anche se genericamente qualificabile come “credente”, o più specificamente come “credente cattolico”, è ben libero – tanto più in uno Stato laico che tutela la libertà di coscienza come valore preminente – di condividere o meno, di applicare o meno nella concretezza della sua esperienza di vita privata e individuale (è del resto evidente che una professione di appartenenza – più o meno formale o generica – ad una certa confessione religiosa non implica affatto anche la inesorabilità di una piena condivisione ed osservanza pratica, e in concreto, di tutte le relative regole, anche morali)».

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Qui brilla la logica aristotelica della Corte: essere cattolici non significa necessariamente aderire ai canoni morali della Chiesa cattolica. Posto questo assunto ideologico, gli stessi magistrati si rendono però conto che forse la questione è un po’ meno astratta e deve essere valuta per ogni singolo caso.

 

E allora «alla luce del quadro personologico di Eluana emerso in sede istruttoria» per la Corte è sufficiente la «sua insofferenza verso qualunque imposizione esterna, anche di tipo religioso» a far «sembrare ragionevole escludere» l’influenza su Eluana di «un preciso ed univoco orientamento della Chiesa cattolica sul tema in oggetto». Et voilà, ecco affibbiata alla povera ragazza di Lecco la patente di cattolica di serie B.

 

L’apoteosi si raggiunge, poi, quando la Corte tenta di ricostruire il rapporto tra Eluana e la Chiesa “de relato”, per interposta persona. Argomentano i giudici: «In concreto, infatti, e con particolare riguardo all’ipotizzata “formazione cattolica” di Eluana, il Sig. Englaro ha posto in evidenza, e alcune dichiarazioni testimoniali hanno confermato, che la scelta di Eluana di iscriversi ad una scuola media superiore gestita da suore cattoliche fu resa inevitabile e “costretta” dalla mancanza di un equivalente istituto scolastico pubblico, e ha soggiunto che anzi proprio l’esperienza presso tale scuola le procurò una reazione di insofferenza per quella che lei riteneva fosse un’oggettiva impossibilità di dialogo e di confronto con il corpo docente». Questa la prova inconfutabile di un rapporto travagliato con la Chiesa!

 

Ma è il padre di Eluana a togliere ogni dubbio alla Corte: «Il Sig. Englaro ha poi evidenziato che, pur essendo vissuta nel formale rispetto dell’istituzione religiosa, Eluana non è mai stata di fatto una cattolica praticante e che, al di là della sua intima religiosità, è stata sempre critica verso qualunque richiesta istituzionale di adesione a pratiche o ideologie che fosse basata sul puro e semplice principio di autorità».

 

A nessuno consentirei – meno che mai a mio padre – l’arrogante e assurda pretesa di interpretare il mio rapporto personalissimo con Dio. E se un giorno, dopo la mia morte, qualcuno si azzardasse a dire che io ho scelto, per la mia formazione scolastica, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano solo perché un’ottima scuola, mi rivolterei nella tomba.

 

Nel caso di Eluana, però, i magistrati non hanno avuto dubbi perché lo «specifico insieme di elementi informativi» forniti dal sig. Englaro «qualunque sia il grado di efficienza probatoria che gli si voglia riconoscere, è comunque l’unico da cui emerga una qualche traccia un po’ più chiara sulla dimensione religiosa della personalità di Eluana, e si pone semmai esattamente agli antipodi del dubbio che il suo intimo credo religioso potesse non conciliarsi con una scelta orientata verso l’interruzione del trattamento di sostegno artificiale». Però, quale granitico convincimento! Fa venire in mente Friedrich Nietzsche: «Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità».

 

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Ma non basta, gli inquisitori dell’anima arrivano a concludere che «non potrebbe esservi poi nulla di più esplicito nel dimostrare il modo del tutto soggettivo e libero di interpretare il sentimento religioso da parte di Eluana, di quella già ricordata ed icastica immagine consegnata all’istruttoria soprattutto dalla sua amica Laura Portaluppi, in cui Eluana accende sì un cero in chiesa, ma per chiedere come grazia non che il suo amico, in coma a causa di un incidente stradale, possa continuare a vivere, ma che invece possa morire». E qui, usando maldestramente gli strumenti teologici cui non sono evidentemente avvezzi, i magistrati commettono il macroscopico errore di confondere la “fides” con la “pietas”. Roba da primo anno di seminario.

 

Evidentemente convinta della propria competenza in materia, la Corte persiste in simili elucubrazioni teologali fino al punto di affermare – attraverso un laicissimo decreto – che nell’episodio della candela «si esprime indubbiamente un profondo sentimento religioso, che nasce e si sublima, nel rapporto con un’altra persona, nella più empatica pietà per la sua tragica condizione, e che non rifugge nemmeno dalla speranza o dalla convinzione dell’esistenza di una divinità trascendente che possa intervenire a risolvere dall’alto le tragedie umane; ma si esprime al tempo stesso anche la convinzione di come sia intollerabile e inconcepibile accettare la riduzione di sé a un corpo privo della possibilità di muoversi, di pensare e di sentire, e in definitiva incapace ormai di vivere una vita nel senso più umano e completo del concetto».

 

Ormai la Corte si è fatta prendere la mano ed esorbita sconfinando nell’enigmatico universo della mente, con riflessioni psicologiche di sapore junghiano, fino a spingersi nel campo della “proiezione del sé”. Elucubrano, infatti, i giudici milanesi: «Perché, a ben vedere, proprio il suddetto sentimento di pietà, che nell’occasione in cui Eluana chiese per il suo amico la grazia della morte la indusse ad interpretare questa come un bene, anziché come un male (ovvero, come dovrebbe o potrebbe dirsi restando nella sfera terminologica della sentenza di cassazione con rinvio, come il "best interest" per il suo amico nella condizione in cui costui si era trovato), altro non pare che il sintomo rivelatore della proiezione del sé di Eluana, del proprio modo di sentire e concepire la vita e la morte, del proprio modo di immaginare quale sarebbe stata, anche e in primo luogo per lei stessa, la soluzione migliore in quella data situazione: poter morire, assecondando un esito “naturale”, e non già consegnarsi al lungo trascorrere di una vita solo organica ed apparente, senza più contatti con il mondo esterno, e senza la possibilità di vivere coscientemente e pienamente la propria esperienza di vita».

 

Dopo essere stati rapiti dall’estasi dell’infervorata “disquisitio theologica” in salsa freudiana, i magistrati hanno un momento di resipiscenza e tornano alla realtà quando scrivono: «Ebbene, il compito di questa Corte è solo quello, per quanto ostico e ingrato, data la gravosa natura delle scelte del tutore soggette in questa sede a controllo e autorizzazione, che è stato segnato dalla pronuncia della Suprema Corte; ossia di controllare – con logico apprezzamento di fatto delle prove acquisite (insindacabile purché congruamente motivato) – la correttezza della determinazione volitiva del legale rappresentante dell’incapace nella sua conformità alla presumibile scelta che, nelle condizioni date, avrebbe fatto anche e proprio la rappresentata, di cui il tutore si fa e deve farsi “portavoce”: nulla di più e nulla di meno». Meno male!

 

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Ora, si parla tanto della necessità di una netta distinzione tra Stato e religione e della natura laica delle istituzioni pubbliche. Ma che Paese è quello in cui i giudici arrivano a dare, per decreto, la patente di buon cattolico?

 

I deputati che in Parlamento saranno chiamati a pronunciarsi sul tema del cosiddetto “testamento biologico” non potranno non tener conto di questa pericolosa deriva giurisprudenziale.







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