FINANZA E POLITICA/ Privatizzazioni e credit crunch: il risparmio italiano è sotto attacco

- Gianni Credit

Dopo aver aperto un nuovo gioco sul fronte credit crunch, il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha rilanciato anche le privatizzazioni. Il commento di GIANNI CREDIT

saccomanni_R439 Il ministro Saccomanni (InfoPhoto)

Dopo aver aperto un nuovo gioco sul fronte “credit crunch”, il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha rilanciato anche le privatizzazioni in funzione taglia-debito: si dice sollecitato dal premier Enrico Letta. Il “format” proposto – lo abbiamo già sottolineato su queste pagine – è unico: società-veicolo e cartolarizzazioni, si tratti di “loans” bancari (“bad” o “good”) o di asset pubblici (pregiati come le quote Eni, Enel e Finmeccanica, ma soprattutto meno pregiati, come la congerie di beni immobiliari del demanio). Al ministro non si può negare alcuna delle doti del “civil servant” della migliore scuola Bankitalia: il buon senso competente; la realistica proposizione delle vie praticabili per raggiungere obiettivi prefissati in tempi e modi utili e accettabili; fors’anche già qualche “pour parler” operativo presso gli indirizzi giusti. Ma questo non impedisce di parlarne, proprio nel momento in cui il “modello Saccomanni” viene preso per buono.

Un primo momento di discussione – almeno a parere di chi scrive questa piccola nota settimanale – è, ancora una volta, l’opzione per la finanza “di mercato” rispetto a quella “bancaria”. Opzione “preventiva” (cioè obbligata, tecnica, oggettivamente non eludibile rispetto all’oligopolio finanziario globale) oppure “pregiudiziale” (cioè adesione confermata, discrezionale e “politica” a un sistema fortemente dibattuto dopo il grande crac)? A nessun osservatore sfugge che i veicoli che dovrebbero ri-contenere le sofferenze delle banche italiane o impacchettare caserme dismesse non sono affatto diverse dai “Siv/Spv” che – prima del 2008 – hanno redistribuito su scala globale i rischi dei mutui subprime. Il modello rimane quello della “finanza derivata” ormai da manuale o da annale: si usano dei beni materiali o immateriali come “sottostante” all’emissione di obbligazioni “collateralizzate” da collocare presso in prima battuta presso grandi portafogli istituzionali.

Saccomanni, nei fatti, prospetta dunque di insistere su vie già battute, sia dal Tesoro che dalle grandi banche italiane. Il primo – sotto la guida di Giulio Tremonti – ci provò con le “Scip” immobiliari, peraltro sempre bollate come “finanza creativa”; le seconde – basti pensare alle “Trevi” della Capitalia di Matteo Arpe – tentarono di alleggerirsi di crediti-zavorra e di recuperare flessibilità nell’attivo. I risultati non sono mai stati realmente sensibili, anche se alcune banche – ad esempio, Intesa Sanpaolo – hanno potuto affrontare lo tsunami di cinque anni fa in condizioni di forma un po’ migliori.

C’è in ogni caso un denominatore comune ai due casi: l’orientamento esclusivo verso i big player di finanza globale. A “ingegnerizzare” le operazioni sono sempre state banche internazionali: in maniera forse scontata sul piano tecnico (know-how e condizioni date di accesso ai mercati finanziari), meno sul piano “di economia politica”. E non sono certamente queste righe a porre ora per prime la questione. È almeno un anno, ad esempio, che lo fa Milano Finanza: la proposta formalmente firmata dall’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e dall’economista Guido Salerno Aletta non è strutturalmente diversa dai “veicoli” rispolverati da Saccomanni. Lo è invece laddove le “obbligazioni cartolarizzate” sarebbero “Btp di emissione speciale” a lunga scadenza e garantiti dallo Stato italiano o da soggetti come la Cdp.

È implicito – ma evidente – che questi titoli sarebbero offerti anche – o forse addirittura in via privilegiata – al risparmiatore italiano. E si ode subito il rumore delle vesti stracciate dei liberisti ortodossi (e talora al servizio di ciò che chiamiamo “libero mercato”, quando è invece spesso un oligopolio privatissimo ed egemone). Attenzione al rigido salto logico: un quarto di secolo dopo l’apertura dei mercati (il risparmio finanziario delle famiglie italiane deve potersi indirizzare verso le migliori condizioni di rischio-rendimento-liquidità offerte dal mercato) a quello stesso “giacimento” è vietato il “rimpatrio agevolato”. Agevolato non da uno scudo fiscale, ma dall’investimento in titoli a rischio controllato e a rendimento interessante e sicuro.

Certo, può essere facile gridare alla restaurazione oscurantista: al ritorno agli anni – non troppo lontani – in cui le banche italiane avevano il monopolio del risparmio interno e lo intermediavano quasi interamente sul debito pubblico (in via diretta e indiretta) e sul credito all’economia. Però nel 2011 – a furia di “cosiddetto mercato” – siamo arrivati all’esatto opposto: a un ”credit crunch” disperante e killer e a un patetico “Btp-day” invocato proprio dai “media” liberisti per piazzare “in patria” il piatto di lenticchie di una singola emissione con spread a oltre 500. E non dimentichiamo mai che la speculazione contro l’Italia è stata fatta anche con risparmio italiano. Né la tragica equazione: “banca-che-cade-in Borsa è una banca fallita”.

Stante – miracolosamente – uno stock ancora importante di ricchezza finanziaria delle famiglie e flussi di risparmio paradossalmente rilanciati dalla recessione, non è possibile trovare qualche punto d’equilibrio? Tremonti, a modo, suo, aveva già tratteggiato i titoli di debito della Banca del Sud: un bond a lungo termine garantito e con buon rendimento perché fiscalmente agevolato non può essere un investimento adatto per una previdenza complementare che non decolla mai? A dipendenti pubblici e privati “in esodazione” non si può dare metà del trattamento di fine rapporto in Btp speciali? Il Paese che – suo malgrado – ha già inventato una volta il secondario telematico dei titoli di Stato non è in grado di gestire la liquidità di un “nuovo debito pubblico”? Le banche italiane (BancoPosta compreso) hanno piazzato alla loro clientela tutti i “reverse convertible” altrui possibili: non riuscirebbero a collocare titoli “plain vanilla”? Certo, la Goldman Sachs o la Deutsche Bank saranno probabilmente sempre della partita, ma in modo diverso dall’essere sportelli del Monte di pietà, cui l’Italia si autocostringe a depositare immobili polverosi o di sofferenze bancarie maleodoranti.

È peraltro comprensibile che perfino a un tecnocrate bancario di scuola italiana come Saccomanni appaia quanto meno inestetico evocare la ricostruzione di circuiti finanziari “nazionali”. Però è inammissibile anche tenere la testa immersa nella sabbia del deserto globalista. Può essere invece accettabile che per ripulire i bilanci di qualche grande banca sia utile creare una o più “bad bank” (ma per favore niente moralismi strumentali: decine di banche americane, inglesi, tedesche, francesi, soprattutto spagnole e perfino svizzere, sono già fallite da un pezzo). Ma non obblighiamoci a scrivere cento volte che una Bcc del nord che ha finanziato il negozio di fronte per tre generazioni ora non può far credito alla quarta perché il tutto non entra in Basilea 3. E che semmai bisogna fare un corso rapido di “crowdfunding” o-come-diavolo-si-chiama. Quella Bcc il merito di credito ce l’ha, continua a essere circondata di risparmio e anche di “merito di credito” imprenditoriale cui prestare soldi. Generare investimenti, occupazione, redditi, tasse e altro risparmio.

È qualcun altro che vorrebbe continuare a utilizzare quel risparmio – attribuendosene un preteso merito di credito certificato da Standard & Poor’s – per finanziare i Mondiali in Brasile e poi quelli del Qatar. “Il problema è politico”, avrebbe immancabilmente sintetizzato un intellettuale della Magna Grecia come Ciriaco De Mita. “La politica è sangue e m….”, avrebbe chiosato un predecessore di Saccomanni alle Finanze, Rino Formica. 





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