CAOS MIGRANTI/ La dittatura in Eritrea e il “debito” dell’Italia

- Caleb J. Wulff

L'Eritrea sta drammaticamente soffrendo sotto una pesante dittatura militare che ha creato una disperata emigrazione di massa. l'Italia dovrebbe fare di più. CALEB J. WULFF

immigrazione_migranti_sbarchi_africa_eritrea_lapresse_2016 LaPresse

L’Eritrea è preda di una spietata dittatura ormai da più di vent’anni. E’ stata la prima colonia italiana, costituita nell’ultimo ventennio del 1800 e base di quella che poi, con la Somalia italiana e con l’Etiopia dopo la guerra del 1935, sarebbe diventata l’Africa Orientale Italiana. Alla fine della seconda guerra mondiale, sottratta al dominio italiano, l’Eritrea fu unita all’Etiopia, prima come unità autonoma federata e poi inglobata nell’Etiopia nel 1962. Dopo una lunga lotta per l’indipendenza, nel 1993 venne proclamata la repubblica con a capo Isaias Afewerki, capo del movimento indipendentista. Da allora Afewerki è rimasto al potere, capo di un partito unico che ha imposto una rigida dittatura, chiudendo il Paese a ogni influenza esterna, comprese Ong e aiuti umanitari. La conseguenza è stata una massiccia emigrazione, che si stima abbia coinvolto circa il 10 per cento della popolazione, soprattutto dei giovani, anche per sfuggire a un servizio militare obbligatorio, teoricamente di 18 mesi ma prolungabile a vita secondo l’arbitrio del governo.

Non a caso recentemente Mondo e Missione ha parlato di “prigione eritrea”, governata con il terrore e ridotta in condizioni di estrema povertà, con l’80 per cento della popolazione che vive di un’agricoltura di sussistenza, continuamente minacciata da ricorrenti crisi di siccità. Le poche ricchezze del Paese sono in mano alla cerchia di potenti vicini al presidente, così come i possibili i investimenti dall’estero. Questa misera situazione senza speranza porta a cercare di emigrare, ma il calvario dei migranti inizia ancor prima di arrivare al Mediterraneo, spesso vittime di predoni e bande criminali. Costoro chiedono riscatti enormi alle famiglie dei loro prigionieri, che vengono uccisi se il riscatto non viene pagato e, riporta la rivista missionaria, usati per il traffico illegale di organi per i trapianti.

Per diversi anni la penisola del Sinai ha rappresentato la maggior via di transito per gli eritrei, malgrado molti di essi finissero in mano dei beduini e usati, come già detto, per ottenere riscatti dalle famiglie. Questa via è ora divenuta molto difficoltosa perché Israele ha costruito un muro per impedire l’accesso al suo territorio e nella penisola è in atto un violento scontro tra esercito egiziano e milizie jihadiste. Ora i principali flussi passano per i territori, non meno pericolosi, del Sud Sudan, Egitto e Libia, per poi dirigersi verso l’Italia, considerata però un transito verso il Nord Europa, preferito come destinazione finale.

Malgrado questa drammatica situazione, le potenze occidentali non sembrano dimostrare un particolare interesse ad abbattere la dittatura di Afewerki, come fatto invece per Gheddafi o tentato con Assad. L’Unione Europea si dimostra abbastanza conciliante con il governo di Asmara nel tentativo di frenare il flusso di immigrati, ennesima prova di come la tragedia dell’emigrazione venga utilizzata dai vari regimi. Il comportamento dell’Europa nei confronti del ricatto di Erdogan rappresenta probabilmente un buon incentivo per altri regimi a seguirne l’esempio. Il regime di Asmara è anche accusato di appoggiare gli Shabaab somali, ma anche la Somalia non sembra per il momento essere in cima ai pensieri occidentali.

Molti italiani hanno spesso considerato il loro Paese diverso dalle altre potenze coloniali, ma ciò che sta accadendo in Eritrea e Somalia sembrerebbe contraddire questa sensazione. L’Italia ha spesso denunciato la situazione in Eritrea e la pesante violazione dei diritti umani, ma il suo ruolo di ex potenza coloniale nell’area avrebbe forse richiesto, e richiederebbe tutt’ora, un più concreto impegno.

Un’ultima osservazione riguarda la fine che hanno fatto i movimenti anticoloniali e antioccidentali di matrice marxista, che si sono in gran parte trasformati in dittature militari, come nel caso dell’Eritrea. Lo stesso è accaduto per l’Etiopia dopo la cacciata del negus, e per la Libia di Gheddafi o l’Iraq di Hussein, tanto per fare qualche altro esempio, ma la lista è decisamente più lunga. Se la democrazia non può essere imposta con le armi, non può evidentemente essere conquistata con la rivoluzione, se non è mai esistita prima. Un grave dilemma irrisolto per le democrazie occidentali.







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