JOBS ACT/ I “difetti” che frenano il contratto a tutele crescenti

- int. Maurizio Del Conte

Per MAURIZIO DEL CONTE, il fatto che l’obbligo di reintegro dell’articolo 18 si applichi solo ai vecchi contratti e non ai nuovi creerà un mercato fatto di lavoratori di serie A e di serie B

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Il Jobs Act di Renzi che interviene anche sull’applicazione dell’articolo 18 per i neo-assunti ha sollevato un vespaio di critiche, ma che cosa comporterà nello specifico la nuova legge? A cambiare saranno le regole per quanto riguarda i licenziamenti, con il varo del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i neo assunti. A quanto pare, queste persone nei primi 24 mesi non avranno il reintegro sul posto di lavoro se saranno licenziate. L’azienda sarà tenuta a un risarcimento che crescerà in proporzione agli anni lavorati. Chi perderà il lavoro riceverà un indennizzo pari a una o forse due mensilità per ciascun anno di lavoro, fino a un massimo di 24 mesi. Ne abbiamo parlato con Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano.

Professore, che cosa cambierà in sostanza con il contratto a tutele crescenti?

I dettagli sono fondamentali, e sarà necessario verificare quali sono i termini precisi del nuovo contratto a tutele crescenti. Dal disegno che si profila abbiamo un contratto che tendenzialmente va a sostituire le altre forme contrattuali, diventando il contratto di riferimento. Nei primi due anni avremo una sorta di esenzione dall’articolo 18 e nello stesso tempo una tutela indennitaria economica nel caso di licenziamento. L’indennità cresce in funzione dell’anzianità di servizio. Al termine di questo periodo resterebbe comunque esclusa l’applicabilità dell’articolo 18. Per coloro che sono stati assunti con il contratto a tutele crescenti avremmo esclusivamente una tutela indennitaria anche dopo il biennio, salvo i casi di licenziamento discriminatorio.

Lei come valuta questa riforma del diritto del lavoro?

L’idea è interessante, ma ci sono almeno un paio di cose da mettere a punto. La prima è coordinare l’attuale forma contrattuale con la disciplina del contratto a tempo determinato. Quest’ultimo oggi è privo di requisiti causali, quindi si può attivare in qualunque caso senza nessun onore particolare in caso di recesso. Se c’è una tutela crescente per questo nuovo contratto a tempo indeterminato c’è anche la probabilità che le imprese non lo scelgano per il primo biennio. Le aziende possono infatti far ricorso al contratto a tempo determinato che di fatto verrebbe a costare di meno.

Quindi il Jobs Act rischia di essere una legge inutile?

Diciamo che affinché non sia inutile sarà assolutamente necessario rivedere la disciplina del contratto a tempo determinato o rimodulare quella del contratto a tutele crescenti in modo che si rendano compatibili l’uno con l’altro, e non ci sia un sostanziale inutilizzo del contratto a tutele crescenti in favore di un contratto che costa di meno. L’altro punto da valutare con grande attenzione riguarda ciò che accadrà dopo il biennio. Se abbiamo comunque una disapplicazione dell’articolo 18 dopo il biennio, il rischio è che si generi un ulteriore dualismo del mercato. Da un lato avremmo i lavoratori iper-protetti con un contratto vecchio stile stipulato secondo le regole preesistenti, cioè con l’articolo 18. Dall’altra invece avremmo i neo-assunti che si porteranno dietro per sempre la tutela indennitaria e non quella re-integratoria.

 

Quindi anziché ridursi si accentuerà la “discriminazione” tra lavoratori di serie A e di serie B?

Proprio così. Noi non possiamo permetterci di accentuare una differenziazione di tutele che già purtroppo affligge il nostro mercato del lavoro. Occorre capire come sia possibile una convergenza tra i due sistemi, cioè quello che prevede l’articolo 18 e quello che si basa sulla tutela del reintegro solo per i licenziamenti discriminatori. Questi sono i due nodi fondamentali, e non sono eludibili perché se oggi la norma dovesse uscire senza affrontare questi due nodi avremmo dei grossi problemi, sia per quanto riguarda il contesto della normativa relativa alla tutela dei licenziamenti, sia intermini di politica europea del lavoro, che ci impone di evitare il più possibile una distinzione tra lavoratori tutelati e non tutelati.

 

(Pietro Vernizzi)







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