CROSBY & NASH/ Come se il tempo si fosse fermato

- La Redazione

Due ore e mezza abbondanti di musica. Sul palco due artisti capaci di far rivivere quarant’anni di carriera come se il tempo si fosse fermato. La recensione di GABRIELE BAMBINA

crosby_R400 David Crosby, foto di Paolo Brillo

Inizio effettivo del concerto: 21,10 circa. Fine: 23,50. Pausa tra un set e il successivo: circa 15 minuti. Due ore e mezza abbondanti di musica. I soggetti sono due anziani di settant’anni. I brani eseguiti sono 26, estratti da quarant’anni di carriera.
Eight miles high è il brano più antico (Byrds – 1966), Slice of time il più recente (“A brand new song” puntualizza Crosby); in mezzo sia molti brani targati seventies come Long time gone, Wind on the water, Guinnevere, Orleans, Cathedral, Wooden ships; sia qualche estratto dall’ultimo lavoro  (Crosby/Nash – 2004) come They want it now e, soprattutto, l’eccezionale Lay me down, brano scritto dal figlio dato in adozione quarant’anni fa di Crosby, nonché tastierista, James Raymond.

Momento più ispirato: Laughing; il pubblico reagisce con un tumulto di applausi lungo ma con un tipo di intensità diversa da quella con cui il nostalgico medio applaude il classico “pezzo forte”; c’è di più: il riconoscere la bellezza di un suono e di un’armonia che vanno ben oltre la nostalgia  tipica di un evento come questo. 

Va aggiunto che il concerto è stato filologicamente curato, a volte anche troppo, perché gli arrangiamenti rispecchiassero gli originali. Rimangono leggeri spazi per l’improvvisazione: Deja Vù o Wooden Ships.

Come ultima e più importante osservazione tecnica bisogna riconoscere lo smagliante stato di forma che i due vocalist, soprattutto David Crosby, posseggono. L’acustica del teatro lascia che i suoni si amalghimino alla perfezione, basso e batteria non eccedono ma rimangono pregni di rotondità e volume; chitarre e tastiere tessono il tappeto con riguardo e fraseggi su cui infine le voci intarsiano quei formidabili arabeschi con cui la canzone americana della west coast ci ha allevato.

La potenza distingue un Crosby che si inoltra in altezze inaspettate, la precisione è di casa Nash, che tiene tutto il suono unito e saldo. Vanno sottolineati inoltre i contributi alle armonizzazioni vocali di Raymond e del batterista.

Il rischio di questi eventi è la solita celebrazione di ciò che fu e che non è più. Lo spettatore può portarsi a casa l’evento con quest’ottica e la musica rimarrà allora sinonimo di evasione (poco più utile di una canna, che costa molto meno tra l’altro). Ma questo è affare dell’ascoltatore, che avrebbe gli stessi problemi anche con un gruppo neonato o un film appena uscito.

Il concerto, però, è stato effettivamente volto al passato e noi ci siamo abituati al grido di “cosa vuoi aspettarti altrimenti?”. Malissimo! L’abitudine è il peggio. Si può amare perdutamente un concerto del genere ed è giusto che accada; una musica bella è bella sempre e inoltre oggi Crosby e Nash sono molto più precisi di quanto non lo fossero nei live degli anni ’70.

È vero pure che uno come David Crosby ha la capacità di immergersi con tutto se stesso in un pezzo che ha cantato mille volte, esultando quando, a fine esecuzione, l’intreccio delle voci si è rivelato riuscito, quasi come un bambino ancora capace di stupirsi per cose a cui, in media, si è abituati. Questo aspetto lascia colpiti e incuriositi.

L’altro versante della faccenda è proprio che lo stesso David non si pone problemi sul vivere di rendita e  che qualche brano nuovo non può autorizzare a parlare di artisti vivi e scoppiettanti, benché di artisti comunque si tratti. Chi ha visto This must be the place, film appena uscito di Paolo Sorrentino, può paragonarsi alle parole che Cheyenne rivolge a David Byrne, il succo è: “Tu sei un artista perché continui a cercare nuovi linguaggi e te ne freghi di cosa vuole la gente ma è la gente che deve trovare nella tua ricerca motivo d’interesse”.

Questo aspetto, nel concerto dello Smeraldo, è emerso poco. La domanda non è “Cos’è che l’artista ha da dire di nuovo?” ma “Come l’artista dice ciò che ha da dire?”. Cercare infatti sempre è comunque il nuovo è spesso deleterio, non è da tutti; allora, posto che qualcosa di nuovo c’è sempre da dire, la domanda è “Perché al nuovo è sempre preferito il vecchio?”.

Forse perché il pubblico chiede quello. E perché succede? Perché forse nessuno tra i nuovi è riuscito a raccogliere quel linguaggio e rinnovarlo. Forse, la questione è troppo ingombrante per essere ridotta in poche righe. Ma è vero tutto ciò? Vale la pena interrogare la contemporaneità per non ignorare, per non perdersi qualcosa, per non stare attaccati al passato così da confondere musica per nostalgico ricordo della giovinezza e per chiedere infine a questo presente qualcosa di decisivo.

C’è chi, ancora giovane, non ha da legarsi nostalgicamente a nulla; ha la fortuna di poter guardare una musica dall’esterno, per quella che è più che per ciò che ha rappresentato (la musica più bella non rappresenta, è bella in sé, se no si chiamerebbe colonna sonora); ma ha l’obbligo di chiedersi e di pretendere anche dai suoi coetanei qualcosa di analogo, rimproverando, quando può, i vecchi musici per essere ancora i più grandi detentori di bellezze e capolavori, ma non abituandosi a ciò.

Nonostante le sacrosante polemiche chi c’era si è portato a casa un’esperienza magnifica.

(Gabriele Bambina)





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