NEVERMIND/ L’anniversario: vent’anni del disco dei Nirvana, l’ultima rivoluzione rock

- Paolo Vites

Nel settembre 1991 usciva il disco Nevermind dei Nirvana, l'ultima rivoluzione rock. PAOLO VITES racconta l'epopea della scena grunge e della generazione X

Nirvana_R400 I Nirvana

In una quanto rara combinazione di coincidenze mediatiche, quella che sarebbe stata definita l’ultima rivoluzione rock ebbe l’appoggio di cinema, editoria e naturalmente discografia. Rivoluzione rock, termine già di per sé ambiguo e restrittivo, ha senso proprio in quanto comprende non solo l’ipotetico arrivo sulle scene di un nuovo genere musicale, che ad ascoltarlo a fondo il grunge – è questa la rivoluzione di cui stiamo parlando – non ha poi granché di innovativo, quanto un impatto generale a livello sociale, culturale, politico. Anche di moda e costume, ovviamente. Più o meno quanto era avvenuto a metà degli anni 50 con l’avvento di Elvis e dei primi eroi del rockabilly (non si chiamava ancora rock’n’roll), a inizio 60 con l’esplosione della Beatlemania, a fine decennio con i fiori nei capelli degli hippie e a metà anni 70 con il punk. Tutti fenomeno che coinvolgevano non solo la musica, ma l’intera società. Qualcosa di analogo sarebbe accaduto con il grunge, esploso a livello internazionale grazie al successo inaspettato del secondo album di una semisconosciuta band di Seattle, nello Stato americano di Washington: “Nevermind” dei Nirvana. Proprio come il fenomeno dei Beatles ebbe forma a Liverpool, quello hippie a San Francisco e quello punk a Londra, anche questa nuova rivoluzione aveva la sua città, il suo covo, la sua mecca, una cittadina tra le più piovose e tristi d’America, nota fino a quel momento solo per essere sede degli stabilimenti della Boeing e per il miglior cappuccino degli States. Ma anche per il largo consumo di eroina.

La coincidenza mediatica di cui si diceva prima fu questa: nel marzo 1991 esce il libro “Generation X: Tales for an Accelerated Culture”, esordio letterario dello scrittore canadese Douglas Coupland;  il 24 settembre 1991 esce il disco “Nevermind”; il 18 settembre 1992 esce nei cinema il film dello scrittore/giornalista/regista Cameron Crowe, “Singles”. Fenomeni indipendenti tra di loro, eccetto il film “Singles” che racconta a fenomeno già esploso proprio il ritratto di Seattle e dei musicisti grunge, ma come ogni opera hollywoodiana dà a tale movimento la consacrazione ufficiale e di massa, questi tre eventi racchiudono, spiegano, esaltano e lasciano aperta la domanda relativa all’ultima rivoluzione rock, contribuendo ognuno a modo suo a portare tal rivoluzione alle orecchie e agli occhi del mondo intero. “Voglio mostrare alla società ciò che la gente nata dopo il 1960 pensa delle cose. Siamo stufi di stupide etichette, siamo stanchi di essere emarginati con lavori penosi e siamo stanchi di sentire parlare di noi da altri”, avrebbe detto Coupland parlando del suo libro. Che oltre a descrivere perfettamente il buco nero in cui si trovavano i giovani americani in quel periodo storico a cavallo tra la fine degli 80 e l’inizio dei 90 in maniera efficace, divertente, cinica, ma anche commovente, ha il merito di dare un nome a quel fenomeno: la generazione X, una generazione senza neanche un nome tanto è priva di ogni ideale, motivazione, scopo di vita.

Sia il libro che il disco dei Nirvana danno un ritratto completo di una generazione figlia delle utopie pacifiste, rivoluzionarie, della cultura della droga e dell’espansione della coscienza, della libertà sessuale ereditate dai genitori e che si trova in mano niente altro che detriti ideologici e fallimenti su ogni campo, da quelli umani a quelli economici. Non è un caso che tutto questo movimento nasca a Seattle e dintorni, una regione depressa per il clima orribile (Seattle è la città più piovosa d’America), per la crisi economica – eredità delle spericolate avventure reaganiane – ideale ambientazione non a caso dell’inquietante film televisivo di David Lych, “Twin Peaks”. Qui, dato i prezzi bassi delle case, vive dalla metà degli anni 80 una folta comunità artistica che più che darsi a creazioni, preferisce stordirsi di droga, eroina soprattutto. Ma qui si è diffusa sin dagli anni 80 una vivace realtà musicale, fatta di gruppi rock che mettono insieme le istanze punk, quelle hardcore e quelle hard rock in una etica detta del “do it yourself” tipica del punk: fai le cose da solo, non importa quanto sei bravo, ma fai qualcosa.

Cioè scrivi canzoni, registra dischi, pubblicali senza l’appoggio delle grandi major discografiche, in quel periodo storico interessate più a fenomeni di plastica come Madonna o Michael Jackson. Il termine grunge, che più o meno significa “sporco, malmesso” era già noto sin dai primi anni 80, usato proprio in una rivista musicale di Seattle, dal titolo decisamente azzeccato per raccontare di quella realtà, Depression Times. I Nirvana, nati ad Aberdeen, cittadina a pochi chilometri di distanza da Seattle, saranno quelli che grazie all’enorme successo commerciale del disco “Nevermind” diventeranno simboli stessi del grunge, ma a Seattle all’epoca esistevano dozzine di ottime band. Certo, un frontman carismatico nonché geniale autore di canzoni come Kurt Cobain non lo aveva nessuno.

Il primo concerto ufficiale dei Nirvana risale al marzo 1987. Cobain avrebbe spiegato in seguito di aver scelto questo nome per la sua band per esprimere un concetto sereno e pacifico, in contrasto con i nomi delle altre band dell’epoca che includevano nel loro nick parolacce e insulti assortiti. Figlio di una coppia separata, Kurt era stato definito dalla madre “il bambino più felice del mondo. Si svegliava ogni mattina con il più meraviglioso sorriso possibile”. Sorriso che sarebbe scomparso dal suo volto quando i genitori decidono di separarsi. Da allora il giovane Cobain comincia una odissea di trasferimenti, ora con la madre, ora dal padre, più spesso dalla zia o dalla nonna. Andrà a vivere per un certo periodo anche sotto un ponte di Aberdeen, poi in malmessi appartamenti con altri giovani, sviluppando una sorta di malessere psicosomatico allo stomaco per combattere il quale diventerà dipendente dall’eroina. Un tossicomane per mancanza di amore, quello paterno e materno, caratteristica di gran parte della sua generazione, figli allo sbando di coppie anch’esse allo sbando. Una generazione X, appunto, a cui, come avrebbe detto lo scrittore Coupland, “hanno tolto tutto, anche il concetto di Dio”. I Nirvana musicalmente sviluppano una formula essenziale nel formato classico del trio chitarra-voce-batteria.

Una formula potente, sconquassante, nevrotica, figlia tanto del punk che dell’hard rock dei Led Zeppelin. Eppure il loro singolo di maggior successo, Smells like Teen Spirit, quello che avrebbe trainato “Nevermind” in cima alle classifiche di tutto il mondo cacciando indietro addirittura Michael Jackson, cominciava con il riff di un brano dell’odiato – da parte dei giovani grunge – classic rock degli anni 70, la canzone More Than a Feeling dei Boston. Smells Like Teen Spirit è un brano formidabile, un classico istantaneo della storia del rock, un capolavoro di assalto sonico da paura. Dal titolo, che identifica in modo ironico una sorta di “odore” generazionale prendendo di mira anche le odiate pubblicità di prodotti commerciali che i grunge non potevano sopportare, al riff devastante, al ritornello magnetico, al cantato sofferente e pietoso come un urlo dalle viscere dell’anima di Kurt Cobain. “Nevermind” nel giro di pochi mesi è successo mondiale: a gennaio del 1992 ha già venduto dieci milioni di copie, ne venderà in questi vent’anni oltre trenta. E’ un disco perfetto, nonostante qualche eccesso di produzione un po’ mainstream, non ha una canzone minore ma una serie completa di classici. E inventa uno stile, fatto di vuoti e pieni, rallentamenti ed esplosioni soniche che in realtà lo stesso Cobain dirà di aver preso come ispirazione dal gruppo dei Pixies. E contiene una ghost track, la canzone fantasma che diventerà per anni un tormentone che tutti vorranno in includere nei loro cd.

Una canzone che si può ascoltare solo dopo aver lasciato acceso il giradischi alla conclusione dell’ultimo pezzo e non segnalata sull’album. Cobain spiegherà questa idea come un ironico ricordo di quando, anni prima, un suo amico che era solito registrargli su cassetta compilation di brani, inseriva in fondo dopo alcuni minuti di pausa un’ultima canzone. Kurt, che usualmente si addormentava durante l’ascolto, veniva svegliato con fragore da questo brano inaspettato. Ecco spiegata la nascita della “canzone fantasma” Endless, Nameless. Smells Like Teen Spirit è degna di essere ricordata anche per l’epocale video clip girato in una palestra di una scuola dove cherry leader e studenti vari si buttano uno sull’altro davanti allo sguardo assente di un bidello, simbolo di quella confusione e vuoto dell’anima che caratterizzava i giovani grunge, dove i simboli stessi dell’America come il college, le ragazze e i buoni studenti diventano un ammasso confuso di angosciosa disperazione. Come un quadro di Hieronymus Bosch, il video è una visione apocalittica e claustrofobica di una società, una cultura, che sta implodendo e si sporge sull’orlo degli inferi. Ma c’è un brano in “Nevermind” che colpisce e resta nella storia ancor più di questo. Si intitola Come As You Are, ed è una preghiera. Una preghiera a quel Dio di cui la generazione X era stata privata. Come As You Are è attesa e desiderio: è la domanda che un altro si faccia presente, è urgenza che qualcuno si riveli con un linguaggio che esprime tutto il bisogno del cuore dell’uomo di fronte alla solitudine.

Un desiderio apparentemente inesprimibile ma che in questa canzone trova il suo sbocco: “Vieni come sei, come eri, come voglio che tu sia, come un amico, come un vecchio nemico, fai con calma, fai in fretta, la scelta è tua, non fare tardi, prenditi una pausa, come un amico, come una vecchia memoria”. Una memoria impressa nel cuore che è impossibile cancellare. Nella canzone, una avvertimento, una profezia, un terribile grido di aiuto che nessuno seppe cogliere: “E giuro che non ho una pistola, no, non ho una pistola, non ho una pistola”. Il pomeriggio del 7 aprile di tre anni dopo, Kurt Cobain non aveva una pistola in mano, ma un fucile. Con quel fucile si sparò in bocca ponendo fine al suo dolore e a quell’attesa invocata in Come As You Are. Il sangue di Kurt Cobain, l’ultima rock star, ricade su chi non ha accolto la sua domanda, su una America che ha lasciato soli i suoi figli. In modo sorprendente, più di trent’anni prima di Kurt Cobain, la stessa richiesta di Cobain aveva trovato una anticipazione nelle parole di  un grande poeta italiano, Clemente Rebora. Nella sua poesia Dall’immagine tesa, Rebora diceva: “E non aspetto nessuno, fra quattro mura, stupefatte di spazio, più che un deserto non aspetto nessuno, ma deve venire, verrà d’improvviso quando meno l’avverto, verrà a farmi certo del suo e mio tesoro, verrà come ristoro, delle mie e sue pene, verrà: forse già viene”. Perché la domande del cuore dell’uomo è la medesima, in qualche cittadina italiana così come nella piovosa Seattle.

Nel 1994, l’anno in cui Kurt Cobain si uccide, Douglas Coupland dirà a un giornalista: “La generazione X è morta, Questo termine è stato cooptato ed è diventato oggetto di marketing e i membri della generazione X erano piuttosto resistenti al diventare oggetti di marketing”. Di quella ultima rivoluzione rock resta un disco memorabile, “Nevermind” dei Nirvana con alcune delle canzoni più oneste e devastanti dell’intera storia del rock. Che come in ogni buon anniversario viene adesso ristampato in versione deluxe con tante sorpresine per l’acquirente.





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