INDIE ITALIA/ L’intervento: Targa Tenco, M.E.I., ma le grandi canzoni dove sono finite?

- La Redazione

Dove va la musica in Italia? Che senso hanno premi come la Targa Tenco o appuntamenti come il Meeting delle etichette indipendenti? L'intervento di BARBARA DARDANELLI

tenco_R439 Il Club Tenco

Continua su IlSussidiario.net, dopo l’intervento di Claudio Trotta di Barley Arts, il dibattito sul futuro della musica, quella dal vivo e quella su disco. Un futuro che appare sempre più incerto. Questa volta l’intervento è di Barbara Dardanelli, giornalista, promoter e addetto stampa.

Ci siamo persi, anzi, ci siamo voluti perdere. E lo abbiamo fatto nella maniera più semplice, usando l’immobilismo e lasciando che le cose continuassero ad essere come sono sempre state. Abbiamo fatto, in poche parole, finta di niente. Abbiamo continuato a distribuire targhe e premi, a ritrovarsi a Meeting dove anno dopo anno ci siamo raccontati le solite cose, facendo finta di porsi dei problemi, ma alla fine senza aver mai voluto trovare davvero le soluzioni. Arrivati a questo punto, ovvero al punto in cui l’intero sistema musica sta collassando su stesso, risucchiato da un enorme buco nero di cui tutti siamo colpevoli, cosa ci resta da fare? Prima di tutto bisogna smettere di fare gli struzzi e guardare la realtà dei fatti che va oltre le singole colpe di settore. Non è solo colpa dei promoter, non è solo colpa delle agenzie, non è solo colpa degli artisti, non è solo colpa del pubblico. Il problema è che il meccanismo a un certo punto si è inceppato e a ognuno faceva comodo pensare che la colpa non fosse sua. E mentre eravamo impegnati a scagliare parole come pietre contro quello o quell’altro, siamo rimasti fermi nel cercare la soluzione. Intanto la SIAE faceva i suoi comodi, i negozi di dischi chiudevano, i cd non si compravano più, le riviste di musica crollavano, la gente non andava più a vedersi un concerto. Tutti attorcigliati all’interno, salvo poi, felici come delle pasque, premiare o essere premiati con una targa come quella del Tenco, che davvero bisognerebbe chiedersi oggi, a fronte di tutti i problemi che ho elencato, che senso ha.

Che senso ha essere “i migliori” all’interno di un sistema che si sta sgretolando e che se non si ricorre ai ripari, presto non esisterà più. Ha senso una targa che non sposterà di un millimetro la situazione dei premiati, nel senso che nessuno di questi grazie al premio Tenco venderà più dischi o farà più concerti, come un tempo sarebbe stato? Il punto è che c’è un problema assai più importante da affrontare e non è quello di decidere chi è il migliore. La cosa più grave è che invece di porsi questa domanda, ovvero che senso abbia oggi un premio, come al solito ci piace perderci tra le mille cavolate del “quello non si meritava di vincere” o ancora “sempre la solita mafia che premia le solite persone” ecc. Problemi inutili ora. E non capisco come un’artista ancora agogni ad essere in quella cinquina, come si possa sentire offeso dal non esserci rientrato, come gioisca della vittoria, con quale impeto di passione esprima il suo giudizio o esterni il suo giubilo e non riesca allo stesso modo ad indignarsi per come tutto stia crollando, come non riesca a prendere gli strumenti in mano che lo competono e dire “ora basta, ora c’è da trovare davvero una soluzione”. E per primi la soluzione dovrebbero trovarla gli artisti. Il mercato è saturo e si continua a sfornare roba. Oggi si fa un disco come se fosse una crostata alla frutta. Va di moda l’orizzontalizzazione della musica, manca la verticalità, lo scavare, lo studio. Si vuole fare tutto, subito, si fanno robette simpatiche e accattivanti ma che reggono il tempo di un paio di recensioni e una ventina di concerti.

L’omologazione ai talent anche nell’ambiente indie, dove il nuovo divetto del momento, soppianta quello passato solo in virtù di una nuova faccia, è ormai evidente. Bisognerebbe che il fattore “arte” ritornasse ad essere il punto focale di chi scrive musica e allo stesso tempo si abbandonasse l’home made e si riscoprisse la piacevolezza di un lavoro ben fatto in tutte le sue componenti. Il bricolage da dopolavoristi non va bene, non va più bene. Non si può pretendere di essere trattati da professionisti e non comportarsi come tali, ma viaggiare sempre su un livello di pressapochismo sconcertante. Note e parole buttate come là come un bambino quando fa gli scarabocchi. Ma lo scarabocchio di un bambino non sarà mai arte, se non c’è una base di ricerca, di studio, di approfondimento. Non si può essere tutti artisti per impeto o peggio ancora partito preso.

 Ci sono poi le etichette che hanno smesso di fare scouting, hanno smesso di andare in cerca di qualcosa di veramente interessante, hanno smesso di investire, hanno smesso di crederci. Si è preso la strada del filone. Qualcuno per fortuna ne azzecca una e allora via, tutti a produrre la stessa roba fino a saturare il mercato e precludendo quella che era una prerogativa del mondo indie, ovvero una possibilità di diversificazione della proposta che avesse come unico punto di contatto la qualità. E invece se vanno di moda gli “pseudo” cantautori, via tutti a produrre quelli, con il risultato di creare delle mode effimere ed assumere quegli atteggiamenti mainstream che sempre sono stati contestati nell’ambiente. Lo stesso identico ragionamento vale per le agenzie di booking, che non hanno più voglia di “rischiare”, senza capire che quando la proposta diventa univoca,  forse rischiano ancora di più sul lungo termine. Avere una strada piena di ristoranti cinesi e neanche una pizzeria è controproducente, primo perché il giorno in cui le persone si stancheranno di mangiare cinese probabilmente arriverà molto prima, secondo perché quando si stancheranno ci sarà un vuoto cosmico e il crollo sarà inevitabile. I promoter dal loro canto se avessero voglia di invertire la rotta potrebbero farlo.

Dovrebbero ricominciare a proporre la qualità e il nuovo come pietra angolare su cui costruire qualcosa, invece di lasciarsi trasportare in questo circolo ozioso-vizioso che sta alla base di risolvere il problema del “non soldi”, attraverso la logica de “la qualità tanto non paga”. E allora o si sono assopiti sul sicuro passato o sul mordi e fuggi del momento, senza creare una progettualità che vada oltre. La critica e il giornalismo non è esente da colpe, anche là ci siamo dati all’improvvisazione, la professionalità non riceve più nessuna gratificazione in termini di riscontri, passare una vita sul campo ad informarsi, a crescere con la musica, ha poco valore oggi giorno se uno studente qualsiasi può scrivere una recensione e farsi chiamare giornalista. Non esistono dunque più punti di riferimento, se non quelli dati in pasto pronti per essere spolpati in una sola stagione e il pubblico, impigrito, si è lasciato andare a questo fast food della musica, aspettando e non cercando, criticando e non proponendo, fermo immobile, come fermo e immobile è diventato questo mercato, nel più grosso paradosso che questo settore potesse arrivare a vivere. Ovvero essere nel pieno di un mercato sovraccarico di proposte e nonostante ciò, rimanere fermo.

La parolina magica che sento più spesso pronunciare come mantra è “gratis”. “Gratis” è diventata nel cervello di tanti la soluzione al problema. Non ci sono soldi? Io lo faccio gratis, te lo regalo, è tuo, prendilo cavolo! Il cd è in download gratuito, il concerto è gratis, l’ufficio stampa lo paghi la metà della metà, il concerto te lo  vendo a rimborso spese, se vuoi scrivere sul mio giornale puoi farlo, ma a gratis. Io aborro questa situazione, la aborro perché sta affossando ancora di più il mercato. Certo è la soluzione più facile, vediamo se almeno gratis te lo prendi, ma alla fine che ritorno ha in termini di lunga durata? Nessuno. Il concetto invece che deve passare è quella di una rieducazione del pubblico, che deve tornare ad avere piacere a spendere per le cose belle e viversele come una fonte di investimento. Le cose belle si pagano, le professionalità si pagano.

 E quando si paga si sceglie. Si sceglie su cosa sia più giusto investire e non è forse una delle più belle sensazioni saper di essere uno dei tanti investitori di un progetto che a noi stessi dà piacere? Il concetto è che se questa cosa davvero ti piace sei tu che scegli di farla vivere o meno, comprando il cd, andando ai concerti, divulgandone il messaggio. Funziona così per tutto, perché con la musica invece bisogna per forza cadere nella logica del discount? In un mondo di roba gratis, come sarà possibile distinguere davvero la qualità?

Detto questo, c’era un luogo dove tutti siamo passati: il M.E.I. che è l’emblema di questo immobilismo palese. Un luogo dove si animava il fermento, la voglia di fare, di condividere, di fare rete, di scoprire, di trovare alternative, un luogo dove il centro doveva essere la musica. Poi gli anni passavano e le domande rimanevano sempre le stesse, le risposte erano di facciata, la musica dentro ai tendoni mangiata come dentro ad un McDonald’s. L’importante era diventato esserci, farsi vedere, fare una “sfilatina”, salutare chi ci faceva comodo, sparlare del debole di turno e lasciare le cose così, che intanto sembrava che non andassero proprio così male, perché alla fine eravamo in tanti. In tanti sì, ma senza un progetto comune per arrestare quel nulla che ci sta mangiando anno dopo anno, un nulla fatto di teatrini e teatranti a dare e ricevere premi che alla fine serviranno quanto serve il trucco a una vecchia. 

(Barbara Dardanelli) 





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