ROY HARPER/ “Man & Mith”: torna il cavaliere oscuro celebrato dai Led Zeppelin e dai Pink Floyd

- Paolo Vites

Dopo molti anni di silenzio, uno dei massimi cantautori inglesi torna con un nuovo lavoro discografico, Man & Mith: è Roy Harper. La recensione di PAOLO VITES

royharper_R439 Roy Harper

Chi è il Nemico, chi è lo straniero, chi è l’occulto e misterioso male che ci assale? Lo vedi in un passante per strada, il Nemico: gli sguardi si  incrociano per un breve istante, brividi lungo la schiena, poi il passante, il Nemico, sparisce tra la folla. Ma non sei solo: il Nemico è sempre attorno a te. Sono le banche, sono i politici, sono le cattiverie di ogni giorno, sono i totalitarismi e il fanatismo che prendono il sopravvento sul significato vero della religione. Ma alla fine, il Nemico sono io stesso e lo riconosco quando mi guardo allo specchio. “Hats off to (Roy) Harper”, giù il cappello davanti a Roy Harper, cantavano i Led Zeppelin nel loro terzo album, mentre i Pink Floyd lo invitavano a cantare una loro canzone sul disco “Wish You Were Here” qualche anno dopo. 

Roy Harper, che da tutta la vita combatte contro quel Nemico, è tornato, dopo anni e anni di silenzio, che lo si pensava ormai ritiratosi dal music business. Figura straordinaria, rimasta sempre avvolta nell’immaginario di culto nonostante gli apprezzamenti pubblici di star come Zeppelin e Floyd, Harper appartiene a quella generazione immensa che tra la fine dei 60 e la prima metà dei 70 diede vita in Inghilterra a una scena cantautorale unica e indimenticata: Nick Drake, John Martyn e molti altri ancora. 

Chitarristi acustici di gigantesco talento, visionari e cantori delle oscurità dell’animo umano, Roy Harper è uno dei pochi sopravvissuti. Gli altri, come Drake e Martyn, il male di vivere se li è portati via.

“Man & Mith” è il suo nuovo lavoro, nato per caso come racconta lui, grazie agli sproni e all’amicizia con virgulti delle nuove generazione, il californiano Jonathan Wilson che è riuscito a convincerlo a tornare in studio. Il disco va così ad aggiungersi inaspettatamente alla lista dei suoi capolavori anni 70, album come “Stormcock” per dirne uno. L’ambientazione musicale è quella: lunghe riflessioni acustiche, alcune pause elettriche (in una appare anche Pete Townshend alla chitarra), incredibili viaggi sonici di oltre venti minuti di durata e brevi gioielli  che profumano di autunnale campagna inglese. Il suo stile chitarristico tra folk e jazz è tutt’oggi unico e avvincente, così le complesse melodie che costruisce sui suoi brani.

Il disco ha però un tessuto lirico di forte spessore: The Enemy, il Nemico, è la traccia di apertura che detta i toni per tutto il lavoro: Roy Harper si racconta con coraggiosa introspezione davanti al fallimento delle utopie della sua generazione che sono state frantumate dal Terzo millennio cyber tecnologico. L’uomo solo davanti ai suoi fantasmi, Dio una utopia lontana: è The Stranger, lo straniero, Roy Harper, “mi guardo allo specchio ma non vedo me, c’è qualche vecchio fantasma, preferirei correre con me stesso in un mistero distante”.  

Siamo condannati, urla in preda a una agitazione dantesca, in Cloud Cuckooland, condannati a ripetere gli stessi errori . Poi la lunghissima poesia onirica di Heaven is Here ispirata dai miti di Giasone e il viaggio degli Argonauti, Orfeo e la discesa agli inferi,  la magra consolazione che un paradiso può essere intravisto nella bellezza della natura. Alla fine Roy Harper percepisce la sua realtà: è quella dell’esilio,The Exile: “sono in esilio da me stesso dall’uomo che vorrei essere (…) la vita è eterna la morte è eterna, non guardati indietro”. 

Con musiche complesse, intessute su tappezzerie di chitarra acustica purissima e magica, Roy Harper ha consegnato ai posteri la desolazione dell’uomo del Terzo millennio: se non c’è un Dio che si fa incontro in carne e sangue, che senso ha vivere? Finiremo per l’eternità a ripercorrere i miti di Orfeo e Giasone.





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