DAVID CROSBY/ Solo acoustic a Como: ecco l’uomo delle mille domande

- Paolo Vites

Ha incantato tutti in due date italiane, a Lucca e a Como, David Crosby, 73 anni di età e la visione e il cuore di uno per sempre giovane. La recensione di PAOLO VITES

crosby_como_R439 Foto di Renato Ciffarelli

“Dove sarò quando tornerò a casa? Chi vedrò quando sarò tutto solo? E che cosa farò? Dimmi, che cosa potrò fare?”. La risposta, ovviamente, è  a pagina 43. Comincia così lo straordinario concerto solista di David Crosby nella magnifica cornice liberty del Teatro Sociale di Como (“è solo la seconda volta in trent’anni che faccio dei concerti da solo” dice a un certo punto “e quando ho pensato di farne qualcuno in Europa, ho scelto l’Italia, perché qui ho tanti amici”). 

Lui d’altro canto è sempre stato l’uomo delle domande, anzi della domanda: quella di significato dell’esistenza. E le domande stasera, con cinquant’anni e più di carriera alle spalle, la droga, il carcere, il trapianto di fegato, sono sempre vive e non lasciano tranquilli, mai. D’altro canto se sei un uomo impegnato seriamente con l’esistenza le domande non le metti a tacere anche se sei anziano, arrivato – professionalmente -, sopravvissuto, come ci scherza sopra lui: “siamo ancora, qui, chi l’ha detto che saremmo rimasti vivi”. Domande che torneranno a inizio secondo set: “mi domando chi siano gli uomini che davvero governano questo paese e mi domando perché lo governino con mano così feroce, quali sono i loro nomi e in quali strade vivono, mi piacerebbe passare di lì e dare loro un pezzo della mia mente, per fare pace per l’umanità, la pace non è poi una cosa così maledettamente difficile da chiedere”. Già, quella pace che oggi come ai tempi del Vietnam semplicemente su questa Terra non esiste.

Lui, David Crosby, non smette di chiederla, insieme al senso della vita, che con deliziosa poesia zen, con ironia e bellezza proclama di aver trovato in quella pagina di chissà quale libro, Page 43: “La vita è bella anche con i suoi alti e bassi e dovresti assaggiarne un po’ altrimenti scoprirai che ti è passata accanto”.

Atteso, attesissimo, David Crosby ha iniziato il concerto con qualche difficoltà. D’altro canto ha 73 anni, una vita vissuta pericolosamente – altro che Roxy Bar – e una bronchite che aveva messo in dubbio anche i due concerti italiani previsti da mesi. Ma certa gente ha la pelle davvero dura o è l’amore per la musica, quella musica, a renderla inossidabile. I primi pezzi scivolano via con la voce che si deve ancora scaldare, qualche errore nei tocchi di chitarra, ma poi a un certo punto tutto decolla. 

Succede all’improvviso, quando dice che di solito nei suoi concerti da solo non ama far pezzi di altri cantanti, invece stasera ne farà uno. E’ di Joni Mitchell spiega, la sua canzone più bella dice. Lui che scoprì Joni Mitchell decenni fa in un piccolo locale della Florida e decise di produrle il primo disco. La canzone è For Free, un pezzo che è manifesto di un modo di vedere la vita. Il protagonista del brano, è una star arrivata, viaggia in limousine e ha un sacco di gente introno che lo adora e lo serve. Sul marciapiede un musicista anonimo suona il sassofono, e lo fa meravigliosamente, lo fa “for free”, gratis. Ed è più felice e realizzato della star. Ecco la domanda esistenziale anche a 73 anni: chi siamo, che significato diamo alle nostre azioni?

Triad è uno scoppio di emozioni irrefrenabili e lui lo sa. Un altro manifesto, questa volta dell’utopia hippie: “non capisco davvero perché non possiamo andare avanti in tre, ci amiamo l’un con l’altro si vede chiaramente, sorelle, amanti, fratelli d’acqua, quello che dobbiamo fare è provare qualcosa di nuovo, se anche voi siete pazze, perché non possiamo stare insieme in tre?”. Una utopia sconfitta dalla realtà, ma la musica e la voce sono intatte in quegli accordi, in quel riff jazzato in quel sentimento bluesy sconfinato e la canzone vive comunque di una propria vita misteriosa che la rende ancora oggi un inquietante punto di domanda: perché il desiderio del nostro cuore è sempre più grande della realtà?

 

“Mi piace suonare con delle band” dice “Crosby Stills and Nash, Crosby and Nash, Neil Young… ma da solo è un’altra cosa, da solo sei nudo, tu e le canzoni. E io amo le parole”. Il pubblico lo sa e recepisce, non vola una mosca, il silenzio è totale mentre quelle accordature magiche da lui inventate, quel suono cristallino e puro di chitarra acustica riempiono il teatro e le parole si inchiodano sui muri. Ti sfila davanti una vita intera, un mondo: la Los Angeles acid rock degli anni 60 (Everybody’s Been Burned scritta ai tempi dei Byrds), la San Francisco hippie (Guinnevere), gli anni 70 del riflusso e dell’inquietudine (Naked in the Rain), le nuove canzoni scritte oggi. David Crosby è uno specchio dove ci guardiamo e raccogliamo quello che resta delle nostre speranze e dei nostri sogni adolescenziali, quella orgogliosa bandiera freak, quei capelli lunghi che oggi Crosby porta candidi e soffici come quelli di un Babbo Natale, ma che allora sventolavamo orgogliosi davanti ai nostri genitori e professori.

 

Il secondo set si apre in modo inequivocabile. Le mani in tasca, l’aria rassegnata di chi non ha proclami da imporre ma solo i consigli di un vecchio saggio che ha speso la vita in mille battaglie per rendere il mondo più umano. Scuote la testa e dice: sapete di chi è la colpa? Non è della politica o della religione. Non lamentatevi del vostro governo, i governi non contano più. “Corporations” è la parola, la maledizione del terzo millennio: hanno loro il potere, decidono loro chi muore e chi vive. Poi, sempre senza chitarra, la voce nuda, la domanda scolpita nel cuore: What are their names?, la pace non è una cosa così difficile da chiedere. 

 

La serata volge al termine: il sorriso, quel sorriso da gatto di Alice nel paese delle meraviglie, che sempre lo ha contraddistinto, che spunta da sotto i baffoni, compiaciuto, sereno, quasi un abbraccio a ogni singolo spettatore che lo applaude senza sosta. Quel sorriso hippie un po’ malinconico, un po’ rassicurante. Deja Vu, con le sue intricate armonie raga jazz che Miles Davis ascoltava con invidia, ci lascia sospesi nel vuoto e per finire un solo bis, la rabbiosa, romantica e cattiva Cowboy Movie.

Stasera abbiamo vista anche noi un film, il film della nostra vita. 





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