BRUCE SPRINGSTEEN/ Il dvd “A MusiCares Tribute”: l’omaggio delle star al Boss

- Luca Franceschini

Esce oggi il dvd A MusiCares Tribute To Bruce Springsteen che documenta la serata in onore del musicista americano in occasione del premio Person of the Year. di LUCA FRANCESCHINI

BRUCE_SHOT_R439 Bruce Springsteen con Tom Morello

Lo scorso anno Bruce Springsteen è stato insignito del prestigioso premio “Person of the Year”, assegnato dall’Academy (la stessa dei Grammy) e da MusiCares, un’associazione appartenente alla stessa Academy, che si occupa di assistenza a musicisti in difficoltà. L’onorificenza viene concessa sulla base di meriti artistici e filantropici e in passato è stata riconosciuta a gente come Paul Mc Cartney, David Crosby, Sting, Bono e altri nomi di questo calibro. 

L’anno scorso è toccato a Bruce Springsteen, uno che di attività in favore dei meno fortunati ne ha sempre fatta parecchia, sin dall’inizio della sua carriera: basti ricordare le numerose Food Banks che sostiene in lungo e in largo negli Stati Uniti (ma anche all’estero, quando va in tour, quest’anno in Australia ne ha supportata una ogni sera) o le associazioni di reduci del Vietnam con cui è sempre in contatto e visita non appena può. 

I meriti artistici non sono neppure da discutere per cui ecco che, l’8 febbraio 2013 il diretto interessato, la sua band e la famiglia al completo (per la verità mancano due figli maschi ma ci sono anche la sorella e la madre) volano a Los Angeles per presenziare alla cerimonia di premiazione. 

Che oggi, ad un anno di distanza, la Columbia ha pensato bene di far diventare un bel DVD, in modo tale da far vivere le emozioni di una serata indubbiamente speciale anche a coloro che non potevano permettersi il costosissimo biglietto d’ingresso (tre quarti del pubblico erano personaggi più o meno conosciuti del mondo dello spettacolo e possiamo anche capire perché). 

Introdotti dall’attore e comico Jon Stewart, decisamente divertente nel suo ruolo di anfitrione, per un’ora e mezza circa si sono susseguiti una quindicina di artisti famosissimi, intenti ad interpretare un brano ciascuno dal folto catalogo del Boss. Il quale, seduto sorridente ad un tavolo fronte palco, osservava curioso. 

Stewart si impegna a far sbellicare tutti dalle risate facendo notare che “certamente Springsteen non aveva proprio di meglio da fare stasera, se non venire qui, mettersi un vestito, in una sala che ha la stessa temperatura del sistema solare, per ascoltare gente che parla di lui come se fosse morto.” 

Dopodiché via con i pezzi. Aprono gli Alabama Shakes, che si producono in una potente versione di “Adam Raised a Cain”, una botta di energia molto aderente all’originale, con una grande interpretazione vocale che ne accentua la componente soul. 

Poi è già la volta di un pezzo da novanta come Patti Smith che, ovviamente, propone “Because the Night”, il brano che Bruce le regalò, ancora incompleto, nel 1978 e di cui lei scrisse parte del testo, ispirata da una telefonata notturna che aspettava dal suo futuro marito, lo scomparso Fred “Sonic” Smith. Inutile dire che la signora è ancora in gran forma e sfodera una prestazione maiuscola, di rara intensità. 

È bello che la regia indugi spesso sui volti dei presenti: tra loro tanta gente del mondo dello spettacolo (tra i più famosi Sean Penn, amico di vecchia data e Jennifer Haniston) che canta le canzoni e sembra divertirsi come se fossero fan della prima ora. Stessa cosa per Bruce: è curioso sorprendere i suoi sguardi ora stupiti, ora ammirati mentre, in compagnia di una entusiasta ed emozionata Patti Scialfa, guarda i vari musicisti interagire col suo repertorio. 

Il terzo pezzo è un’altra perla: arrivano infatti Ben Harper e Charlie Musselwhite che, forti dello splendido disco che avevano allora appena inciso, rileggono “Atlantic City” in una suggestiva versione folk blues, aiutati dalla voce e dalla chitarra acustica di Nathalie Maines. Esecuzione strepitosa la loro, che però si perde un po’ lungo la strada. In particolare, l’impressione è che il pezzo sia filato via eccessivamente “dritto”, togliendo gran parte della carica drammatica data dal testo. 

Ken Casey, leader dei Dropkick Murphys, ha un vecchio legame con Bruce, sin da quando quest’ultimo ha cantato in un brano del loro penultimo “Goin’ Out in Style” e i due act hanno condiviso i palchi di diversi festival europei. Ovviamente “American Land” è la canzone più adatta alle sue corde ed è proprio quella che viene interpretata. Bella, ma senza particolari sussulti. 

E arriviamo così a scoprire uno dei difetti di questa serata: formalmente ineccepibile, la band che accompagna i solisti è sempre la stessa (la sezione di fiati e cori coincide quasi in toto con quella della E Street Band) e ciò fa sì che, al di là dell’interpretazione di chi canta, gli arrangiamenti non brillino per originalità e l’effetto karaoke sia sempre dietro l’angolo. 

Non accade coi Mumford and Sons, che arrivano in California direttamente dalla pausa di riflessione nella quale sono immersi da mesi (qualcuno vocifera addirittura di uno scioglimento). Suonano una “I’m on Fire” che era già stata più volte ascoltata nei loro concerti. Che dire? Non amo particolarmente questa band ma è innegabile che la loro versione sia bellissima, decisamente meglio dell’originale. Probabilmente Bruce stesso avrebbe fatto meglio a registrarla così. 

Grandi emozioni anche poco prima, quando Mavin Staples (sempre in gran spolvero, nonostante l’età) e Zac Brown hanno duettato su “My City of Ruins” e le hanno restituito il vestito gospel, con tanto di esplosione di coro nel finale. Ci voleva, soprattutto dopo che le ultime esecuzioni live della E Street Band ce l’avevano resa piuttosto soporifera.

Personalmente attendevo Jackson Browne in maniera spasmodica ma sono rimasto deluso: “American Skin” (nella quale compare anche Tom Morello) brutta è e brutta rimane, anche con uno della sua caratura dietro al microfono. Peccato, perché se si fosse esibito da solo in qualcosa d’altro, sono sicuro che si sarebbero visti parecchi occhi lucidi in sala. 

Va molto meglio con Emmylou Harris, che  rilegge “My Hometown” accompagnando con la chitarra acustica la sua voce cristallina. Da brividi la prima strofa, poi purtroppo l’entrata della band spezza la magia anche se si resta ugualmente su livelli altissimi. 

Rimanendo in tema folk/country, ecco Kenny Chesney che sceglie anche il primo brano poco noto della serata: “One Step Up”, uno degli episodi più struggenti di “Tunnel of Love”. La sua versione è commovente e intensissima, difficile dire se sia meglio dell’originale ma è sicuramente una bella lotta. 

L’arrivo di Elton John è salutato da applausi scroscianti ma la sua “Streets of Philadelphia” (il pezzo che valse a Springsteen l’Oscar per la miglior colonna sonora originale, nel 1994) non convince appieno. 

Quando il sudamericano Juanes attacca una versione acustica in spagnolo di “Hungry Heart” sono fortemente tentato di mandare avanti. Per fortuna il brano esplode subito in una versione inglese molto vicina allo spirito dell’originale. Divertente ma certamente non necessaria, per un brano che ormai anche nei concerti faccio fatica a sopportare. 

Intenso anche il duetto tra Tim Mc Graw e Faith Hill su “Tougher than the Rest” mentre la presenza di Jim James su “The Ghost of Tom Joad” non aggiunge nulla a quanto già sapevamo di questa versione elettrica. 

Assolutamente da non perdere è invece la “Dancing in the Dark” di John Legend, che si accompagna unicamente al pianoforte trasformandola in una ballata romantica e quasi scanzonata. 

Uno Sting in grande spolvero e insolitamente aggressivo si mangia invece in un sol boccone una “Lonesome Day” che esplode in un ottimo gospel nel finale. 

Neil Young e i suoi Crazy Horse sono senza dubbio uno dei momenti più attesi della serata. “Born in the USA” non è esattamente il pezzo che ti aspetteresti da loro, così come è assolutamente sorprendente la resa devastante del pezzo, quasi punk nello spirito, con tanto di assolo in conclusione che, letteralmente, non ha fatto prigionieri. Sono molti gli ospiti che abbandonano i tavoli per recarsi a ballare sotto il palco. Mai decisione fu più saggia, oserei dire. 

Con gli ospiti abbiamo finito. È giunto ora il momento tanto atteso dell’acclamazione del vincitore. Preceduto dal presidente del MusiCares, che lo introduce con un breve discorso, riassumendo i suoi meriti artistici e le sue principali attività filantropiche, ecco arrivare Bruce Springsteen in persona. Il suo speech è breve ma incisivo, tipico di una persona profonda e mai scontata quale è lui. Celebra il potere della musica nella vita delle persone e in ogni aspetto della realtà affermando, a titolo di esempio, che i Talebani non vinceranno mai proprio perché hanno preteso di bandire la musica dalle aeree da loro controllate. Poi una serie di battute ai colleghi che si sono esibiti, di cui richiama aneddoti divertenti (confessa ad esempio di avere aperto per Charlie Musselwhite ma, ammette candidamente, “Non so se lui se lo ricorda”). “E adesso datemi quella dannata chitarra!” conclude, provocando ovazioni a non finire. È il momento che tutti stavano aspettando: Bruce chiama tutti sotto il palco e va a raggiungere la band fissa che ha accompagnato gli ospiti per la serata. Sono della partita anche Jack Clemons e Nils Lofgren mentre gli altri membri della E Street Band sembrano latitare. Si parte con due potenti esecuzioni di “We Take Care Of Our Own” e “Death to My Hometown”, poi è la volta di “Thunder Road”, durante la quale compaiono anche Gary Tallent, Roy Bittan e Max Weinberg, mentre anche Patti Scialfa si unisce alla festa. Non poteva mancare “Born to Run” ed è davvero divertente vedere i presenti, così diversi dal solito pubblico di Springsteen (parecchi, lo abbiamo detto, sono colleghi musicisti o stelle del cinema), comportarsi esattamente come a un suo concerto, saltando, ballando e rubando istantanee dai telefonini. 

Chiude il tutto una chiassosa e scanzonatissima “Glory Days”, con tutti gli artisti ospiti sul palco a fare casino (bella l’istantanea che mostra figlia e sorella di Springsteen cantare il pezzo come se fossero le sue fan numero uno. Quella canzone è parte della cultura pop americana, l’avranno vissuta così anche loro, dopotutto) e un Neil Young defilato ed impassibile che picchia sulla batteria. 

Decisamente un’ottima scelta, quella della Columbia, di farci vivere questa serata ad un anno di distanza. Si potrebbe discutere sul fatto che non tutti hanno provato ad inventarsi qualcosa, oppure sul fatto che i pezzi selezionati non abbiano brillato per originalità. Ma la verità è che varrebbe la pena possedere questo DVD soltanto per i nomi coinvolti. Una serata di splendida musica, che è riuscita anche a contestualizzare Bruce Springsteen all’interno del panorama musicale dell’ultimo mezzo secolo. Scusate se è poco. 





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