HUNDRED WATERS/ The Moon Rang Like a Bell: il trip hop rivive in Florida
L'elettronica ambient, i suoni trip hop che fecero grande l'Inghilterra degli anni novanta rinascono in Florida, grazie agli Hundred Waters. La recensione di EMANUELE LANOSA
Nella notte più profonda, quando il silenzio diventa assordante e la tranquillità assoluta, quando la città è completamente addormentata e per le strade non si trova anima viva, in quelle notti di cielo terso in cui l’aria è fredda e tagliente, allora la luce della luna piena ha lo stesso suono dei rintocchi di una campana.
E’ da questa immagine che nascono i dodici brani dell’ultima fatica degli Hundred Waters. Una manciata di canzoni dalla glaciale dolcezza nordica che difficilmente si coniuga con la provenienza (Florida) della band che le ha composte e realizzate. Formatisi nel 2011, vengono subito messi sotto contratto dalla OWSLA di Skrillex, e nel 2012 rilasciano il loro primo, e omonimo, LP. Nel 2013 danno alle stampe un Ep il cui nome è già un programma: “Boreal”, che è solo l’anticipazione di ‘The Moon Rang Like a Bell’. Lavoro con cui compiono un passo decisivo verso la completa maturazione della loro musica.
L’ambient è la base, l’amalgama, da cui ogni pezzo si sviluppa, prende forma e cresce fino a diventare qualcosa di indipendente e completamente diverso dall’origine. Le atmosfere che attraversano l’album sono delicate e sognanti, la voce di Nicole Miglis è un sussurro che culla il nostro riposo, una nenia dentro cui ci si perde completamente e le preoccupazioni quotidiane trovano pace. L’elettronica che la accompagna è calda ed elegante. Raccoglie spunti che vanno da Detroit a Bristol passando per l’Islanda. Il quartetto statunitense arriva così a creare canzoni che sembrano essere composte dalla stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
L’album comincia con la ninna-nanna ‘Show Me Love’ della breve durata di 1 minuto e 16 secondi, interamente eseguita a cappella, dove le voci della già citata Nicole Miglis e di Zach Tetreault chiedono: “Don’t let me show cruelty/Though I may make mistakes/Don’t let me show ugliness/Though I know I can hate/And don’t let me show evil/Though it might be all I take/Show me love”. Proprio come una mamma augura tutto il bene del mondo al proprio bambino mentre cerca di farlo addormentare. Il torpore sale ulteriormente con le ipnotiche ‘Murmurs’ e ‘Cavity’ con l’andamento ciondolante del trip-hop dei Massive Attack e tanto di ritornelli liberatori, neanche fossero cantati da Beth Gibbons. Arriva poi un pianoforte campionato accompagna le ansie di ‘Out Alee’, il timore e l’agitazione presenti in questa canzone ci fanno preoccupare che il sogno possa trasformarsi in un incubo: “There, there out alee/There out a’leaning/Thought I saw lightning/There in the middle of… what a haze/Just a phase!/Oh very oh so frightening”.
Si passa allora ad Innocent che re-interpreta in chiave onirica il pop elettronico, diradando le nubi della preoccupazione e trasportandoci in una profonda fase rem. ‘Broken Blue’ e ‘Chambers’, tanto rarefatte e impalpabili quanto struggenti e malinconiche, citano Bjork e ci trasportano in un attimo in uno stato quasi comatoso dove respirare è reso complicato dal peso che si viene a creare sullo stomaco e la stanchezza cinge un cerchio attorno alla testa: “But you must be tired/You spread the finest bed/Tuck it in say/Tomorrow’s gonna be a big day/Then watch it drift away/And all at once it’s broken blue” e “So suddenly/You find it hard to breathe/From the window pane/On a passing train you only want to reach out”. ‘Animal’, invece, è arricchita da una deep house sofisticata e orientaleggiante mentre XTalk ricorda molto quei minimalisti de The XX. ‘No Sound’ posta alla fine di questo viaggio oscuro, incantatore e pieno di classe ha il compito di svegliarci e proprio come Aprile secondo Elliot è la più crudele delle canzoni poiché mescolando memoria e desiderio risveglia le radici sopite che l’inverno mantenne al caldo e ottuse sotto un manto di neve.
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