JOHNNY CASH/ Il video di Hurt: quell’anello di fuoco, tra Caravaggio e Amleto

- Paolo Vites

Ieri 26 febbraio si ricordava la nascita di Johnny Cash, una delle voci più grandi della musica del novecento. Ripercorriamo la storia dello straordinario video di Hurt. di PAOLO VITES

cash-anziano_R439 Johnny Cash

“Indosso questa corona di spine sopra alla mia seggiola da bugiardo, pieno di ricordi spezzati che non riesco a riparare… Che cosa sono diventato, mio amico più caro, tutti quelli che conoscevo alla fine se ne sono andati, puoi averlo tutto il mio impero del male, ti deluderò, ti farò soffrire”. 

Il video di David Bowie, Lazarus, ha impressionato tutto il mondo per il crudo realismo di un uomo malato che sta morendo che si fa riprendere su suo letto di morte. Più di dieci anni prima c’era però stato un precedente, probabilmente ancor più impressionante e coinvolgente, che ha ridotto in lacrime tutti quelli che lo hanno visto. Gente grande e grossa e che di dolore se ne intendeva, non ragazzine: Rick Rubin, ad esempio, produttore musicale tra i più scafati della scena: “Guardando quel video non potevo trattenere le lacrime” ha raccontato. “Se una tale emozione esce fuori durante un film che dura due ore, è un buon risultato. Ma se ti viene da piangere guardando un video che dura quattro minuti, è scioccante”. 

L’autore di Hurt, il brano in questione, Trent Reznor, si trovava in studio con l’ex Rage Against the Machine, Zach De La Rocha, quando qualcuno si presentò con una copia del video: “Alla fine” racconta l’ex leader dei Nine Inch Nails “stavo scoppiando a piangere, in studio era piombato un silenzio totale”.

Hurt, pubblicata anni prima, era la confessione devastante di un tossicodipendente, che aveva gettato ricchezza, amici, affetti e in ultimo anche la vita, per la droga: “Mi sono fatto male oggi per vedere se ancora provavo qualcosa, mi sono concentrato sul dolore, l’unica cosa reale, l’ago ha aperto un buco, quella puntura familiare, per cercare di uccidere tutto, ma ricordo ogni cosa”. L’ennesima iniezione di droga non serve neanche più a cancellare la realtà, tanto l’evidenza del male fatto a se stesso e agli altri è diventata ancora più forte del tentativo di annichilire quel dolore. 

E’ il 2002, Johnny Cash, forse la più grande leggenda vivente della musica americana del Novecento, sicuramente la più grande voce insieme a quelle di Elvis Presley e Frank Sinatra di questa musica, ha 70 anni ed è gravemente malato. E’ stato anche lui tossicodipendente, quegli abusi hanno minato quel corpo grande e apparentemente forte come una quercia. Una serie di dolorose e sbagliate operazioni alla mandibola hanno poi devastato il suo volto. Sta male, malissimo, ma riesce a portare a termine le registrazioni di quello che diventerà il suo ultimo disco da vivo, “American IV: The Man Comes Around”.

Anche questo, come i tre precedenti della serie, è prodotto da Rick Rubin, un ex produttore hip hop e heavy metal che è riuscito a ridare a Cash tutta la gloria e la bellezza che meritava. Dieci anni prima Cash era stato gettato nella spazzatura dai discografici che lui aveva reso miliardari da quando aveva esordito negli anni 50. Per la nuova musica country, diventata un pop ebete da Mtv, non vale più niente, i giovani non sanno chi è e soprattutto i suoi dischi non vendono più. Con intelligenza straordinaria, e soprattutto con affetto, Rubin se lo porta in studio da solo e gli fa incidere i brani meno impensabili per lui, brani di autori lontani mille miglia da lui: Nick Cave, Depeche Mode e altri, tra cui appunto Tent Reznor. Cash fa diventare ognuno di questi pezzi come se li avesse scritti lui, tanta la sua capacità di immergersi nella musica e in storie che condivide a fondo.

Hurt esce come singolo nel 2003 e cattura l’attenzione del regista Mark Romanek che scongiura Rubin di fargli girare un video del brano, anche gratis. La Universal, casa discografica di Cash, accetta e Romanek vola a Nashville per incontrare Cash. Sta troppo male per poter uscire di casa. Ma quando Romanek in cerca di idee finisce all’ormai dismesso museo dedicato al musicista, The House of Cash, e capisce cosa deve fare. Il museo è un luogo abbandonato e abitato solo da fantasmi. Nell’aria  si respira la morte imminente. 

Romanek capisce che, come Cash nelle sue canzoni ha sempre parlato di se, del suo dolore, della sua ricerca di redenzione, anche il video deve dire le stesse cose. E così sarà: il più grande video della storia del rock nasce così.

La caducità della vita, la morte senza pietà, lo sgretolamento della carne e il declino di un’epoca storica prendono vita in quelle immagini. Immagini apocalittiche, che sembrano uscire a viva forza da un quadro di Caravaggio. Il vecchio uomo seduto su un trono, tra tendaggi e mobilia in rovina, i dischi d’oro che cadono dalle pareti, il caviale e le aragoste nei piatti, brevi clip di Johnny Cash giovane e forte, una tavola riccamente inbandita a cui non siede nessuno. Il fantasma della moglie che appare sulla scalinata guardandolo con infinito affetto (June Carter morirà tre mesi dopo questo video). 

“Che cosa sono diventato, mio amico più caro, tutti quelli che conoscevo alla fine se ne sono andati, puoi averlo tutto il mio impero del male, ti deluderò, ti farò soffrire”. 

In un colpo di genio incommensurabile, con un senso della drammaticità insostenibile, quasi fossimo davanti a William Shakespeare e alla maledizione di Amleto, Cash versa del vino rosso sul tavolo, come stesse versando il suo sangue. Il Cristo crocifisso appare tra le immagini mentre Cash si stringe la faccia nei pugni: la morte. Padre perché mi hai abbandonato. Passi da me questo calice. Se possibile. No, non lo è. Va bevuto fino in fondo.

Tre mesi dopo la sua adorata June lo lascerà, spezzando quell’ultimo anelito di vita che gli era rimasto. Lei, la donna che lo aveva portato fuori dall’inferno della droga offrendogli redenzione. Johnny Cash morirà sette mesi dopo. “Se potessi ricominciare da capo, a un milione di miglia di distanza, riuscirei a salvare me stesso, troverei un modo”.

Johnny Cash, una vita spesa a consolare, redimere, difendere gli ultimi, era già stato salvato. 







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