CHIMICA/ Novità: i frantoi per l’olio inquinano, ma la soluzione è in arrivo

- int. Liliana Gianfreda

Chi, che non sia del mestiere avrebbe potuto immaginarlo? Le acque reflue rilasciate dai frantoi sono parecchio inquinanti e pericolose per l’agricoltura circostante. Per fortuna un team di chimici, capeggiato dalla professoressa LILIANA GIANFREDA, sta fronteggiando la situazione

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La produzione olearia è una delle ricchezze dei Paesi mediterranei, ma le acque reflue di frantoio sono fortemente inquinate e costituiscono un notevole problema ambientale in termini di inquinamento e consumo di acqua. Se ne era occupata anche la Comunità Europea che negli anni scorsi aveva finanziato il progetto Newtechomw (New Technologies for Olive Mill Waste Water Detoxification and Product Recovery) nell’ambito del Progetto INCO di cooperazione con i Paesi del Mediterraneo. Il principale obiettivo del progetto era di sviluppare nuove tecnologie per la riutilizzazione agronomica delle acque, che consentissero di minimizzare il loro contenuto fenolico: i risultati non sono mancati (il progetto è terminato nel 2006) e sono stati validati con test di fertirrigazione. Nel contempo, nuove tecnologie sono state testate e sviluppate per l’estrazione di composti ad alto valore aggiunto, di potenziale interesse come antiossidandi e additivi alimentari.

Abbiamo chiesto alla professoressa Liliana Gianfreda, dell’Università di Napoli Federico II, allora coordinatrice del progetto, di chiarirci i termini del problema e illustrarci le soluzioni trovate e i problemi ancora aperti.

Quale problema ambientale pongono le acque reflue derivate dalla produzione di olio?

Le acque reflue di frantoio sono note per i loro effetti tossici nei confronti delle piante e delle comunità microbiche dei suoli dovuti principalmente all’elevato contenuto in sostanza organica e alla presenza di composti fenolici monomerici, acidi grassi e sali. Inoltre, l’elevato valore di COD (Chemical Oxygen Demand), che può superare i 100 g/l, ne rallenta la mineralizzazione biologica impedendone lo scarico diretto in corsi d’acqua superficiale o in fognatura. Infatti, la loro immissione in corsi d’acqua superficiali provocherebbe gravi danni poiché l’elevata concentrazione di sostanze organiche sommata alla tossicità dei fenoli indurrebbe fenomeni di anossia nel corpo d’acqua dovuti al consumo di ossigeno disciolto, necessario per la biodegradazione di tali sostanze. Del resto anche l’immissione delle acque in fognatura è sconsigliabile perché esse, a causa della loro acidità e del notevole contenuto in solidi sospesi e in fenoli con azione antimicrobica, possono provocare la corrosione e l’ostruzione della rete fognaria e compromettere completamente la funzionalità degli impianti di depurazione a valle, inattivando i fanghi attivi in essi presenti.

È possibile e con quali vantaggi, minimizzare il contenuto di fenoli delle acque reflue di frantoio?

Vari sistemi di depurazione e smaltimento delle acque reflue sono possibili: interventi chimico-fisici (decantazione con calce e/o ossidazione totale, concentrazione ed incenerimento, ultrafiltrazione e osmosi inversa), agronomici (lagunaggio verde, fertirrigazione, spandimento superficiale su terreni agricoli), di tipo zootecnico (utilizzo diretto nell’alimentazione del bestiame e/o previo arricchimento, anche con interventi fermentativi) e di tipo biotecnologico (depurazione di tipo aerobio ed anaerobio, fermentazioni con produzione di etanolo o metano e fermentazioni per produrre biomasse microbiche e fungine). Molti di questi interventi proposti non hanno trovato riscontro in applicazioni pratiche o perché inefficienti nell’abbattere il carico inquinante o perché economicamente insostenibili per la maggior parte dei frantoi.

L’abbattimento dei fenoli, i principali composti tossici contenuti in esse, porta alla produzione di acque detossificate, ma ancora ricche di materiale organico e quindi usabili per l’irrigazione di suoli. Tale processo è di sicuro vantaggio in quei paesi dove c’è scarsezza di acqua disponibile all’irrigazione del suolo e suoli poveri in sostanza organica.

Su che tipi di catalizzatori si era concentrata la vostra ricerca nell’ambito del progetto Newtechomw?

La ricerca è stata focalizzata su catalizzatori abiotici e biotici.

I catalizzatori abiotici sono rappresentati dalla frazione inorganica presente nel suolo e comprendente diverse componenti, quali minerali primari, fillosilicati, ossidi metallici, idrossidi ed ossidrossidi vari e alluminosilicati a scarso ordine cristallino, in grado di catalizzare la trasformazione ossidativa di molti inquinanti come quelli di natura fenolica. In particolari gli ossidi e idrossidi di manganese e ferro reagiscono con i composti organici allo stesso modo dei catalizzatori enzimatici producendo sostanze umiche.

I catalizzatori biotici sono particolari enzimi capaci di ossidare molti composti aromatici, come fenoli, aniline, idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e composti non aromatici la cui presenza nell’acqua potabile e irrigua o nei suoli coltivati rappresenta un significativo rischio per la salute umana e per l’ambiente. Inoltre essi riescono a trasformare anche sostanze meno reattive che presentano un’elevata resistenza alla degradazione microbica perché strutturalmente più complesse e per questo dette recalcitranti.

Che risultati avete ottenuto?

Sono state studiate le potenzialità di alcuni catalizzatori biotici e abiotici nel trattamento e detossificazione delle acque di vegetazione, simulando in laboratorio diverse sistemi, ognuno dei quali rappresentativo di situazioni naturali. I due diversi catalizzatori hanno entrambi mostrato di essere in grado di trasformare i composti fenolici in soluzioni semplici sia a bassa che ad alta concentrazione. Tuttavia, l’entità della trasformazione di ciascun fenolo, la tipologia dei prodotti formati e il destino del catalizzatore dopo il processo di trasformazione, sono risultati molto diversi sia qualitativamente che quantitativamente. Infatti il catalizzatore abiotico ha mostrato, rispetto a quello biotico, una maggiore efficienza catalitica in termini di quantità di fenolo rimosso dalla soluzione.

La maggiore efficacia del catalizzatore abiotico si è rivelata anche nei confronti delle acque reflue in toto e del loro estratto fenolico, anche quando il catalizzatore è stato utilizzato con un refluo più complesso in composizione chimica e soprattutto in quantità e qualità di fenoli in esso contenuti. La riduzione del contenuto di fenoli monomerici è stata accompagnata nella maggior parte dei casi dalla contemporanea riduzione della fitotossicità e dell’attività antibatterica.

Che cosa è emerso dai successivi test?

I risultati dei test di fitotossicità condotti con le acque di vegetazione, gli estratti fenolici e le loro frazioni esauste hanno chiaramente messo in evidenza che l’effetto fitotossico è sicuramente, ma non esclusivamente, una conseguenza della presenza dei fenoli monomerici in tali preparati. Infatti, una residua fitotossicità è stata monitorata non solo nella frazione esausta, che verosimilmente non contiene fenoli monomerici, ma anche nei campioni trattati contenenti quantità non misurabili di tali composti.

Viceversa, i test di tossicità batterica hanno confermato che la componente fenolica monomerica è fortemente responsabile della tossicità. Ai fini dell’utilizzo di un catalizzatore per applicazioni in campo ambientale, come ad esempio la depurazione di acque inquinate, è importante mettere in risalto che molti fattori debbono essere presi in considerazione per valutarne gli svantaggi e i vantaggi oltre ovviamente alla resa in termini di sostanza inquinante trasformata.

Le prove effettuate poi sulla risposta a breve termine di un suolo agricolo allo spandimento di due dosi di acque reflue hanno mostrato che molte proprietà chimiche e biochimiche del suolo hanno subito variazioni temporanei e/o permanenti, confermando che l’impatto delle acque di vegetazione sulle proprietà dei suoli sono il risultato di effetti opposti, dipendenti dal relativo ammontare di composti, organici e inorganici, benefici o tossici, presenti in esse. Le suddette proprietà si sono mostrate sensibili al disturbo applicato e hanno dato chiare indicazioni riguardo alla capacità intrinseca tamponante del suolo come risposta alle perturbazioni.

Come si sviluppa ora la vostra ricerca?

Sebbene i risultati ottenuti non sono estrapolabili direttamente a una situazione reale, poiché condotti in condizioni di laboratorio, ovvero in condizioni controllate (assenza di fauna terricola e di fenomeni di lisciviazione), essi tuttavia possono essere indicativi per prevedere la risposta temporanea di un suolo a un disturbo applicato. In futuro, queste ricerche possono essere delle utili guide per ulteriori studi volti a validare ed estrapolare i dati sopra riportati a situazioni naturali.

Infatti, risulta evidente che una conoscenza reale dell’effetto dello spandimeno delle acque reflue sulla qualità e fertilità di un suolo non solo richiede che ricerche siano condotte in condizioni di campo e per tempi più prolungati, ma che gli studi debbano essere condotti prevedendo uno spandimento ripetuto di esse per valutare eventuali effetti di accumulo delle sostanze in esse contenute sulle proprietà globali del suolo.

In conclusione risultati ottenuti hanno indicato che nel trattamento e destino delle acque di reflue di frantoio:

A) la scelta del catalizzatore da utilizzare dipende da vari fattori quali efficienza, costo, facilità di uso soprattutto quando destinato a piccole realtà (frantoi);

B) il catalizzatore abiotico ha mostrato una buona efficienza catalitica, tuttavia l’uso delle laccasi fungine rappresenta un’alternativa valida ed economica;

C) il suolo ha mostrato una certa capacità intrinseca di recupero che, però, deve essere verificata nel caso di ripetuti trattamenti e in condizioni di pieno campo

Ricerche in tal senso si stanno attualmente effettuando per verificare e implementare a livello operativo quanto dimostrato a livello di laboratorio.





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