IL PUNTO/ La ricerca spaziale italiana: declino o nuovo protagonismo?

- int. Nazzareno Mandolesi

L'astrofisico NAZZARENO MANDOLESI ricorda come l'avventura italiana nello spazio sia coincisa con l'inizio dell'era spaziale, un'avventura ricca di successi. Ma, ora, il futuro è grigio...

satelliteR439 (Infophoto)

Pochi ricorderanno che l’Italia è stata il terzo Paese al mondo, dopo Unione Sovietica e Usa, a lanciare un satellite artificiale: il primo dei cinque satelliti San Marco ideati dal professor Luigi Broglio: era il lontano 15 dicembre 1964. E pochi ricorderanno altresì che il professor Edoardo Amaldi, insieme al collega Pierre Auger, dopo aver istituito il Cern negli anni ’50 diedero l’avvio al programma spaziale Europeo, che sfociò poi nella costituzione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA): era l’inizio degli anni ’60. “L’avventura italiana nello spazio coincide quindi con l’inizio dell’era spaziale. Ed è un’avventura di successi”, dice l’astrofisico Nazzareno Mandolesi, uno dei protagonisti del progetto PLANCK e attualmente impegnato anche sul fronte della politica spaziale come Consigliere dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e membro di HISPAC (High-level Science Policy Committee) dell’ESA. Mandolesi però è preoccupato per il futuro della ricerca spaziale italiana, sulla quale si intravedono nubi e ombre di un possibile declino.

Dopo un così brillante inizio, cosa è successo?

In questi cinquanta e passa anni l’industria spaziale italiana si è consolidata, è cresciuta, ha contribuito allo sviluppo dell’asset spaziale mondiale, a notevoli innovazioni che usiamo nella nostra vita quotidiana e gode, a pieno titolo, di un alto riconoscimento nel panorama spaziale globale. Di pari passo il mondo scientifico, Enti di ricerca e Università, hanno avuto e continuano ad avere un ruolo internazionale di elevato prestigio. Ne sono prova le statistiche delle più importanti agenzie internazionali di valutazione che pongono l’Italia al 5° posto mondiale nelle classifiche delle pubblicazioni scientifiche nel campo della “Space Science”. L’Italia pubblica più del 10% delle pubblicazioni mondiali nel settore spaziale, contro il circa 5/6% delle altre tematiche scientifiche.

Lei però non nasconde la sua preoccupazione, perché?

Oggi purtroppo, e già da troppo tempo, si intravede un futuro pieno di ombre e quasi senza speranza (spero di sbagliarmi): un declino inarrestabile in un settore innovativo e di alta tecnologia come quello spaziale che dovrebbe essere uno dei primi settori a passare il giro di boa di questa crisi profonda e interminabile e far ripartire l’economia: è una goccia nel mare, ma se riparte l’asset spaziale è pur sempre un bel segnale positivo per tutto il Paese e per l’occupazione giovanile. Al contrario l’abbandono al proprio destino dello spazio condurrebbe a un continuo e inesorabile declino della “conoscenza” in un settore riconosciuto vitale dal mondo intero; e si rischierebbe di cancellare per sempre una risorsa di insostituibile per il Paese. Per sempre vuol dire proprio “per sempre”.

Allora cosa suggerisce?

Serve uno scatto d’orgoglio, una scossa, uno sparigliamento di carte. E se occorre stringere la cinghia per un tempo limitato, anche nelle scienze aerospaziali, la si stringa come in tutti i settori della vita pubblica  e privata, ma lo si faccia con intelligenza e con un percorso non di morte ma di rinascita.

Per questo cosa può fare l’ASI?

Anche l’ASI soffre, come tutto il Paese, di scarsità di risorse finanziarie. Per questo bisogna sciogliere il nodo di fondo: lo “spazio” è un asset per il sistema Italia o non lo è? Se sì, il mondo politico lo dica chiaramente, governo in primis. Questa è la mia speranza; condivisa, spero, da aziende, Università ed Enti di Ricerca del settore.

 

In che direzione muoversi, quindi?

Esaminiamo i problemi sul tappeto. Partiamo dall’Agenzia Spaziale Europea. L’Italia, per via di accordi internazionali, è il terzo contributore al bilancio dell’ESA, dopo Francia e Germania. Abbiamo aderito a programmi opzionali e non solo obbligatori. Ce lo possiamo ancora permettere? Possiamo rinegoziare tali accordi? In caso che ciò non fosse possibile è nostro dovere pretendere che sia applicata la regola del “giusto ritorno”, in base alla quale il contributo finanziario torna sotto forma di contratti all’industria nazionale, esclusi i costi di gestione di più del 20% che ESA trattiene; bisogna far sì che i contratti assegnati all’Italia abbiano il massimo valore in termini di qualità e innovazione e non solo di quantità. Non possiamo, a mio avviso, esimerci dal battere i pugni sul tavolo.

 

Come orientarsi tra i vari Programmi Scientifici?

È obbligatorio partecipare, da parte degli stati membri, alle spese dei programmi scientifici ESA, che comprendono tutto eccetto che gli esperimenti a bordo. In questo settore ASI è obbligata a fare una lista di priorità e, insieme alla comunità scientifica, fare delle scelte, a volte dolorose. Non ci sono risorse sufficienti, al momento, per finanziare tutti gli esperimenti proposti dalla comunità scientifica. 

 

C’è un settore dove il nostro Paese sembra avere un ruolo rilevante: le osservazioni della Terra; cosa si può dire?

In questo settore l’Italia è leader o meglio “number one”, a livello mondiale, con la costellazione di quattro satelliti radar ad apertura sintetica in banda X CosmoSkyMed (CSK), operativi in condizioni di buio o di cielo nuvoloso e capaci di monitorare l’ambiente per tutte le sue tematiche: agricoltura, monitoraggio marittimo, inquinamento, pirateria navale, catastrofi e infiniti altri campi di applicazione pacifici. La nuova costellazione di due satelliti CosmoSkyMed, indispensabile alla sostituzione dei satelliti CSK man mano che terminano la loro vita, è finanziata a quasi il 50% e, se non vengono reperite urgentemente risorse aggiuntive, dalla metà del prossimo anno cesserà di esistere, con un notevole danno erariale.

L’Italia avrebbe anche la necessità di rendersi indipendente con uno o più satelliti operanti nel visibile. Ma non ci possiamo più permettere il lusso di costruire grandi satelliti (da più di 500 kg) con orbita a 600/700 km. Costano troppo per le risorse disponibili. Possiamo però anche in questo campo aver uno scatto di orgoglio e pensare, per il momento, a nano/micro satelliti orbitanti a quote molto più basse (250/300 km). Costano pressoché un decimo e possiamo metterne in orbita più d’uno, visto che la loro vita media è minore rispetto ai grandi satelliti. La combinazione ottico/radar farebbe dell’Italia ancora un attore di primissimo piano nel panorama internazionale.

Si può pensare anche ad altri progetti “leggeri”?

Credo che si debba fare uno sforzo per reperire nel magro bilancio dell’ASI le risorse necessarie a finanziare bandi che mettano assieme le Aziende private con le Università e gli Enti di Ricerca. Bandi agili, di 18 mesi, che prevedano come risultato dei prototipi e non rapporti cartacei. Ne avremmo tutti da guadagnare e aiuterebbe lo spazio in Italia a non morire nell’attesa che questa terribile crisi finisca. Esempi di tematiche per questi bandi possono essere: payload ottici per piattaforme aeree (droni inclusi) e nano/micro satelliti, dirigibili stratosferici (la stratosfera è un illustre sconosciuto nel settore spaziale e il nostro Paese potrebbe fare molto). Insomma c’è da rimboccarsi le maniche e lavorare tutti assieme per costruire un futuro migliore anche nelle scienze spaziali. Utilizziamo questa crisi per far emergere il meglio del talento italiano. Torniamo all’entusiasmo del dopo guerra e degli anni’60, che i giovani di oggi neanche immaginano. Torniamo allo spirito dei nostri padri fondatori Amaldi e Broglio. Ridiamo speranza alle nuove generazioni e soprattutto diamo loro un futuro.

(Mario Gargantini)





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie