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Home » Politica » CARCERI/ Il braccialetto non è funzionale a un’autentica rieducazione

  • Politica

CARCERI/ Il braccialetto non è funzionale a un’autentica rieducazione

Monica Cali
Pubblicato 10 Settembre 2008
braccialettoR375_09set08

L'esperienza di Monica Cali, magistrato di sorveglianza a Novara, per la quale il possibile provvedimento sembrerebbe poco efficace ai fini della rieducazione e di una vera reintegrazione sociale

In questi ultimi tempi si parla molto dell’introduzione del braccialetto elettronico come forma di controllo più efficace sui detenuti agli arresti domiciliari, e della necessità di adottare forme di espulsione nei confronti di cittadini extracomunitari perché espiino la pena nel loro paese di origine. In realtà forme elettroniche di controllo sono già previste dalla legge e non sono state mai più adottate. Alcuni tentativi sono stati abbandonati. Laddove esercito la mia giurisdizione (province di Novara, Aosta e Verbania), ad esempio, il braccialetto elettronico non è mai stato in uso. I detenuti domiciliari sono controllati nella corretta esecuzione del beneficio, fisicamente dalle forze dell’ordine, durante i servizi di pattuglia o i controlli in abitazione.


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Sinceramente non sono in grado di formulare un giudizio prognostico sulla positività o meno di questo strumento, non avendone avuta un’esperienza diretta. Azzardo una riflessione come magistrato: la detenzione domiciliare è una pena alternativa al carcere che viene concessa a un soggetto in determinate condizioni e la cui pericolosità sociale residua si ritiene possa essere contenuta con questa misura alternativa particolarmente restrittiva. È una pena e in quanto tale si propone comunque obiettivi di rieducazione (lo prevede l’articolo 27, comma 3 della Costituzione), come tutte le misure alternative. Mi sembra che ciò diventi difficilmente perseguibile se il detenuto domiciliare viene completamente isolato da un rapporto umano e personale, che invece favorisce per definizione gli obiettivi di rieducazione.


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Nel nostro ordinamento chi deve scontare una pena viene innanzitutto consegnato ad alcune persone prima che ad alcuni luoghi. In carcere il detenuto è affidato a magistrati, educatori, polizia penitenziaria. Se esce in misura alternativa deve rapportarsi ancora con il magistrato, con l’assistente sociale, con le Forze dell’Ordine. Vedo il rischio di una misura che non sollecita un cambiamento, che non fa leva sul fattore umano, fosse anche solo il rapporto con l’agente di pubblica sicurezza che diffida ad una corretta osservanza delle prescrizioni. Quanto agli stranieri extracomunitari l’emergenza c’è e non si discute. Esistono già le espulsioni degli stranieri che devono scontare una pena al di sotto dei due anni. È un provvedimento a carico del magistrato di sorveglianza e che trova difficoltà di perfezionamento in fase esecutiva. Moltissimi di questi cittadini sono privi di documenti di identificazione e pertanto non possono essere fisicamente accompagnati alla frontiera dalle forze dell’ordine.


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Ci sono poi i provvedimenti di estradizione, che però richiedono tempi molto lunghi e per i quali anche la procedura risulta piuttosto farraginosa. Insomma strumenti ce ne sono, ma giustamente il nostro ordinamento vuole che siano rispettate certe garanzie che un iter processuale deve per forza salvaguardare. La mia esperienza mi suggerisce che, osservate certe condizioni come un’offerta di un lavoro serio o di una rete di rapporti significativi, anche cittadini extracomunitari condannati si sono reinseriti nel nostro tessuto sociale. Certo non è la stragrande maggioranza dei casi, ma sono casi che andrebbero presi ad esempio, magari per far fronte al problema sicurezza anche con altri strumenti non strettamente giuridici.

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