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Home » Economia e Finanza » MERKEL-DRAGHI/ Le nuove mosse lasciano l’Italia nei guai

  • Economia e Finanza

MERKEL-DRAGHI/ Le nuove mosse lasciano l’Italia nei guai

Stefano Cingolani
Pubblicato 26 Settembre 2012
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Mario Draghi e Angela Merkel (Infophoto)

Per STEFANO CINGOLANI, riemergono le contraddizioni che l'operazione di Draghi ha aiutato a tenere sott'acqua. Scampato il pericolo, tutti sono tornati a suonare le loro vecchie musiche

La tregua è finita? L’incontro tra Angela Merkel e Mario Draghi, così come l’intera missione berlinese del presidente della Bce, induce a rispondere di sì. La svolta estiva ha avuto il suo effetto e ha recato sollievo alla crisi dell’euro. Ma ora che arriva l’autunno tornano in superficie tutte le contraddizioni che l’astuta operazione di Draghi ha aiutato a tenere sott’acqua. “Ci vogliono le riforme, senza di esse la Bce non interverrà”, ha dichiarato il banchiere centrale davanti alla Confindustria tedesca alla quale ha spiegato la propria linea interventista: “La scelta era tra un no su tutto o agire, e la Bce ha deciso di agire”. La Kanzlerin, dal canto suo, ha rammentato che “ci sono ancora molti compiti a casa da completare”. Ciò vale per la Spagna, che si accinge a chiedere l’aiuto del Fondo salva-stati, e ancor più per l’Italia, soprattutto se non vuole far ricorso alla ciambella europea.


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Tra la Merkel e Draghi si è notata una grande sintonia su questo aspetto. Il presidente della Bce, che si era esposto al punto da mettersi apertamente contro la Bundesbank, è in piena frenata? Non esattamente. Il fiscal compact è una sua idea e Draghi ha sempre sottolineato che gli aiuti si concedono sotto chiare e talvolta dure condizioni. Su questo non c’è nessuna divergenza né con il recente passato, né con la Merkel, la quale lo ha lasciato fare con abile mossa tattica, ma intende tenere ferma l’ortodossia. “Il debito non va condiviso”, ha ripetuto. Del resto, a giugno aveva detto che non avrebbe mai approvato gli eurobonds, “mai finché vivo” aveva aggiunto tanto per essere chiara.


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Il fatto è che, scampato il pericolo immediato, tutti sono tornati a suonare le loro vecchie musiche. In Germania già si annusa aria elettorale (si vota tra un anno) e di qui ad allora non c’è da attendersi nessuna svolta: né un allentamento fiscale interno (del tipo riduzione delle tasse come hanno fatto gli svedesi), né minor rigore. Anzi, la posizione di Jens Weidmann, il capo della Buba, diventerà il mantra che tutti i politici reciteranno – chi da destra come i cristiano-sociali furibondi per il lassismo mediterraneo, chi da sinistra come i socialdemocratici che vorrebbero far aumentare i salari, ma non l’inflazione.


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Nei paesi in difficoltà rispuntano gli antichi vizietti. In Grecia si scopre che il vero buco è il doppio del previsto e supera i 20 miliardi. In Spagna, Mariano Rajoy tentenna mentre i catalani scatenati vorrebbero tenersi tutti i loro introiti fiscali nel nome dell’autonomia se non dell’indipendenza, aprendo una voragine nel bilancio nazionale. In Italia arriva la valanga della finanza locale e, purtroppo, ancora una volta sarà la magistratura a dare la spinta. Se i quattrini dei contribuenti italiani servono per ostriche e champagne, come si fa a convincere Frau Merkel che dobbiamo essere aiutati dai contribuenti tedeschi? E non è solo questione di malaffare, né una questione di casta. Perché dietro c’è un problema più generale: la spesa pubblica viene usata come sostituto monetario delle riforme. Una riflessione che nessun partito né a destra, né a sinistra vuol fare, tanto meno a sei mesi dalle urne, perché tocca il cuore del sistema.


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Dobbiamo aspettarci, dunque, che la Germania faccia di nuovo la voce grossa. Le prime avvisaglie si vedono sul Fondo salva-stati e sull’unione bancaria. Il meccanismo di stabilità è ancora da costruire e avrà 500 miliardi di euro a disposizione. Troppo pochi. Si pensa che con l’effetto leva possano salire e nei giorni scorsi c’è chi ha ipotizzato la cifra di 2000 miliardi. “Voi siete matti”, hanno replicato le autorità berlinesi. Una tale massa di moneta gettata sul mercato significa prima o poi inflazione. Finora non è accaduto e i keynesiani ribattono che la nuova liquidità ha compensato quella distrutta dalla recessione. La Bce insiste a mostrare che la massa monetaria è invariata. Ma la scuola classica tedesca tiene duro su un punto che a che fare non solo con la teoria, ma soprattutto con la psicologia collettiva, anzi con il Volksgeist.


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Le resistenze sono ancora maggiori sulle banche. Berlino vuole che tutto il sistema delle casse locali sia sottratto alla vigilanza della Bce. Lì è annidata la bolla immobiliare, ma anche una bella quota di debito pubblico più o meno occulto. Soprattutto, di lì passa il potere nelle regioni e nei comuni, lo scambio tra consenso politico, crescita, benessere, aiuti, clientele. Dunque, non si tratta di teoria della moneta, ma di corpose, nodose resistenze sistemiche. Alcuni pensano che il governo tedesco possa mercanteggiare: un consenso all’uso meno rigido del salva-stati in cambio di guarentigie bancarie. Forse. Per ora si sentono soltanto due grandi Nein a Draghi.


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Ma l’autunno porta venti gelidi anche fuori d’Europa. Gli Stati Uniti restano appesi a una crescita asfittica. Mentre il rallentamento dell’economia cinese sta già provocando un primo effetto domino: persino colossi come Daimler e Siemens annunciano una caduta dei profitti a causa dello scivolone asiatico, mentre le conseguenze si cominciano a sentire anche per i grandi marchi italiani del lusso o nel settore delle componenti meccaniche.

In teoria, tutto ciò potrebbe rendere più convincente la tesi di chi chiede meno austerità nei paesi che se lo possono permettere (l’Italia purtroppo è fuori dal giro). Ma qui torna in ballo la sindrome tedesca. E il cerchio si chiude in un drammatico circolo vizioso.

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