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Home » Cultura » PRIMO LEVI/ Come si può scrivere una poesia sullo sterminio?

  • Cultura

PRIMO LEVI/ Come si può scrivere una poesia sullo sterminio?

Alessandro Zaccuri
Pubblicato 25 Gennaio 2013
auschwitz_lager_nazismoR400

Immagine di archivio

Davvero la memoria della Shoah è sopravvissuta alla dimenticanza, al rito delle celebrazioni, pur consapevoli ma ripetute? Come e perché può avere ancora un senso? ALESSANDRO ZACCURI

«Meditate che questo è stato»: è il verso centrale della poesia che Primo Levi pone in apertura di Se questo è un uomo. Una “frase” che nella sua brusca semplicità sfugge alle cadenze fin troppo musicali della lirica italiana, in modo da dare corpo a un ammonimento che si pone fuori da una tradizione e, nello stesso tempo, ne istituisce un’altra. È il gesto di fondazione – forse involontario, ma non per questo meno evidente – di una nuova forma di epica, conseguita tornando a fondere tra loro Bibbia e Commedia: recuperando, in questo modo, l’ambizione sacra che sta all’origine dell’impresa dantesca.


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La letteratura della Shoah sta già tutta in quelle nove sillabe ed è, da subito, letteratura della memoria. A rigore, “meditare” è altro che ricordare, ma non si dà meditazione senza ricordo. E il ricordo, senza meditazione, non avrebbe alcun valore. Intellettuale di buone letture divenuto scrittore per aver compiuto la traversata del lager, Primo Levi sembra trovare in un istante la sua voce – la voce del testimone. Che lo faccia attraverso una sequenza di versi come non se ne erano mai visti dalle nostre parti, scolpiti sul modello pressoché intollerabile dei Salmi imprecatori, è la risposta più eloquente al dubbio, pure legittimo, di quanti teorizzavano che lo sterminio programmato avesse reso desueta la poesia. No, ribatte Levi, semmai è vero il contrario: dopo Auschwitz solo la poesia è ormai abilitata a prendere la parola. Purché di parola autentica si tratti. Parola di testimone, appunto.


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Non sarà più, però, la letteratura come l’avevamo conosciuta in precedenza. Davanti allo scandalo di quegli uomini abbrutiti nel fango e di quelle donne il cui grembo è reso sterile «come una rana d’inverno», l’arte intera subisce una trasformazione che si preannuncia irreversibile. D’ora in poi la necessità di testimoniare ciò che si è visto subentra (o dovrebbe subentrare) alla volontà di affermare se stessi. Per una suprema ironia della storia, straordinariamente simile al contrappasso immaginato da Dante, tutto questo avviene attraverso forme espressive che attingono in larga parte all’eredità delle “arti degenerate” che il nazismo si era illuso di cancellare con roghi e persecuzioni. 


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In Levi, così come nella prosa di Jorge Semprún e nel cinema di Claude Lanzmann, la dissonanza prevale sull’armonia. Non potrebbe essere altrimenti, poiché lo sguardo del narratore-testimone è costretto a spostarsi nei territori dell’intollerabile e, alla lettera, dell’inimmaginabile. Il dispositivo infernale che Thomas Mann consegna alle pagine del Doctor Faustus («Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima») è già stato collaudato qui, sulla terra. 

La crudeltà impensabile è passata dalla potenza all’atto. Come e perché questo sia accaduto lo spiegheranno più avanti storici e specialisti. Per il momento tocca ai testimoni, i quali, quasi non avessero alternativa, scelgono i codici formali dell’arte per rendere presente ciò che sarebbe relegato nel sottomondo dell’informe, dove regnano silenzio e oblio.


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Anche in questo caso, la Shoah impone un rovesciamento. Anzi, non può portare che a un rovesciamento rispetto a quanto si è verificato nell’esperienza. Alla prestabilita disumanità dei carnefici si contrappone la reazione istintiva di un’umanità alla quale non restano altre risorse se non quelle – umanissime – della memoria, della testimonianza e della bellezza. Una strategia differente avrebbe come esito ultimo una vittoria postuma da parte del nazismo, sarebbe la conferma che l’asservimento ha avuto luogo con successo. Se non ricorda, se non testimonia, se non ha più accesso al linguaggio dell’arte, questo davvero non è un uomo. Il fatto che una così assoluta catastrofe non si compia (o che, almeno, non si compia in modo indiscriminato) non costituisce affatto un lieto fine, come conferma l’ombra che ha continuato ad allungarsi minacciosa su molti dei sopravvissuti al sistema concentrazionario. Ma c’è comunque qualcosa di miracoloso nella resistenza che l’uomo riesce opporre al mostro che vuole disumanizzarlo, negandogli perfino la dignità residua che di norma si accorda alla vittima. 


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“Questo è stato”, proclama Primo Levi nel verso da cui siamo partiti. E proprio perché esattamente questo è quello che è stato, raccontarlo non basta, testimoniare non è più sufficiente. Occorre prendere coraggio e cambiare registro, spostandosi più in alto. “Meditate”, lo sappiamo, è un imperativo che nelle intenzioni dell’autore non ha alcuna sfumatura spirituale, tanto meno religiosa. Nondimeno, è l’indizio di un processo che si ripeterà più volte dalla metà del Novecento in poi, fino ai giorni nostri. Una volta trascinati al cospetto dell’indicibile, non ci si può accontentare di dire. Subentra, ancora una volta, l’istinto più che umano caratteristico dell’umanità. Il ricordo si raffina in meditazione, la ferita dell’insensato invoca la medicina del senso. A costo di non trovare, certo, o di fraintendere e smarrirsi. Ma anche questo rischio, come il ricordo e la parola, ci appartiene.


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