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Home » Educazione » Didattica » SCUOLA/ Compiti a casa, qual è il loro “compito”?

  • Didattica
  • Educazione

SCUOLA/ Compiti a casa, qual è il loro “compito”?

Cinzia Billa
Pubblicato 20 Dicembre 2014
scuola_bambini_impegnoR439

Infophoto

Il ministro Giannini, commentando i dato Ocse sul tempo dedicato ai compiti a casa, ha detto che quello impiegato dai nostri studenti è segno di una didattica antiquata. CINZIA BILLA

Sono particolarmente grata al prezioso articolo di Flavia Foradini su Il Sole 24 Ore del 12 dicembre scorso nel quale argomenta in modo lucido una risposta competente alla dichiarazione del ministro Giannini che lo stesso 12 dicembre, a margine del Consiglio europeo su Educazione e giovani, aveva commentato il dato Ocse sul tempo che gli studenti italiani trascorrono a svolgere i compiti a casa: circa 9 ore a settimana, eccessivo rispetto alla media degli altri paesi e, secondo il ministro, segno di un’antiquata didattica frontale.


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Vorrei qui offrire qualche ulteriore considerazione. I numeri, le medie, la statistica in generale, bisogna saperla interrogare. Altrimenti potremo far dire ai numeri tutto e il contrario di tutto. Di che si tratta? Il campione Ocse è composto da studenti 15enni ed è scelto secondo parametri di un’indagine che è molto più complessa di quella che si pretende di far credere. Un criterio adeguato per la lettura e la comprensione dei dati è certamente quello di non scorporarli, cioè di rispettarne la correlazione, secondo i parametri che configurano il campione. Ad esempio, come giustamente notava Foradini, il background socioeconomico e culturale (indice Esc) degli studenti è un dato che non va dimenticato nella misura in cui può incidere sull’efficacia dello studio a casa. Perché non è solo una questione di quantità di tempo, ma di qualità. In tal senso, i risultati di queste indagini dovrebbero essere utili a suggerire piste di approfondimento di una conoscenza di realtà sempre più complesse e variegate, piuttosto che per censurare la realtà dietro numeri che solo in apparenza ci offrono ”idee chiare e distinte”.


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Devono intervenire domande più profonde, quelle di chi a scuola ci lavora, dettate e destate dal  primato dell’esperienza. Ad esempio, anche ammettendo questa enormità di tempo — 9 ore a settimana (!) — dedicato ai compiti a casa da uno studente-tipo italiano di anni 15, come può questo dato essere letto come segno di una didattica frontale? Forse che altri tipi di didattica non implicano i compiti a casa? Come ben sottolinea Foradini, ci sono compiti e compiti, proprio perché discendenti dal percorso scolastico e dall’approccio didattico-educativo.

Dunque, se una riflessione si deve fare sui dati, sarebbe bene farla con i professionisti della scuola: associazioni di insegnanti, dirigenti, genitori, studenti, desiderosi di essere co-partecipi delle decisioni che riguarderanno la scuola. 


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Se la lettura del dato deve portare ad una seria riflessione sulla didattica, di didattica si deve parlare. Allora può essere utile a chi amministra con lo stile “del buon padre di famiglia” considerare le esperienze buone e virtuose della didattica, già in atto nel nostro paese, che documentano dal di dentro di un’avventura educativa pienamente vissuta una creatività appassionata, efficace e intelligente. Così come si deve parlare della formazione insegnanti e fare un bilancio dell’efficacia o inefficacia di quanto fatto finora.

Una parola però va spesa anche su ciò che in alcuni paesi si chiama “dovere” (es.: fr. les devoirs, i compiti), mentre da noi si chiama “compito”. Qual è l’etimologia di “compito”? Ve ne sono almeno due. La prima si fa risalire alla forma varia di còmputo dal latino computàre, intendendo quindi un lavoro di cui si calcola la durata. La seconda, invece, di Ugo Angelo Canello, fa risalire a còmplito per complèto da complère, riferendosi dunque all’atto del portare a compimento. 

Ora, ci pare che l’affaire sollevata dalla lettura del dato Ocse in termini esclusivamente quantitativi rischi di recepire ed assumere solo la prima etimologia. Eppure è la seconda quella più aderente ad una prospettiva metodologica ed educativa. Perché, infatti, io che insegno Llingua straniera — ma vale anche per la matematica, come mostrano gli stessi dati Ocse — assegno dei compiti per casa, ad esempio degli esercizi di lettura o di grammatica o lessico? Perché l’apprendimento — che l’etimologia associa all’atto di “afferrare” — implica una responsabilità, dal punto di vista educativo, e si compie attraverso la riflessione personale e l’esercizio, per ragioni cognitive legate alla natura dell’essere umano. In altri termini, io insegnante ti sto dicendo che tu, studente, ci devi mettere “del tuo”, devi fare “la tua mossa” e non è una mossa senza senso, che ha fine in sé stessa. È dentro un percorso significativo, guidato, dentro un rapporto autorevole con un maestro. E richiede un tempo ragionevole. 

Quante domande, ad esempio, non sorgono in classe perché non si studia a casa? Quanta fragilità si deve al fatto che, in realtà, molti studenti studiano a casa solo la materia di cui hanno verifica il giorno dopo, accumulando pagine di argomenti e appunti su cui non hanno mai posto una domanda al proprio insegnante, perché mai rivista a casa a tempo debito? Verrebbe qui da dire “ai compiti il giusto compito”, cioè va recuperato la loro funzione di parte di un cammino, del dialogo educativo- didattico. Non si tratta di “sindacalizzare” il tempo-studio, ma di ri-significarlo.


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