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Home » Lavoro » Riforma lavoro » RIFORMA LAVORO/ Così il Governo ha messo “in gabbia” imprese e giovani

  • Riforma lavoro
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RIFORMA LAVORO/ Così il Governo ha messo “in gabbia” imprese e giovani

Gianni Zen
Pubblicato 5 Ottobre 2012
elsa_fornero_profilo_phixr

Elsa Fornero (Infophoto)

Come si rilancia una buona riforma lasciata a metà? GIANNI ZEN qualche idea ce l'ha. Però occorrono - neanche a fare apposta - uomini che siano disposti a lavorarci un po' su

Una delle cause della crisi della politica oggi, accanto alla degenerazione dell’etica personale e pubblica da parte di molti uomini politici, riguarda il fatto che non si discute sulla realtà, ma solo sulle intenzioni, sulle ipotesi di proposte, cioè sul quasi-nulla. Perché una cosa dovrebbe essere chiara a tutti: la realtà è criterio di se stessa. Tant’è che a poco servono, ormai, le promesse politiche, i sogni e le illusioni offerte quasi in termini di marketing. Abbiamo tutti bisogno, piuttosto, di capire come stanno le cose, cioè di verità e di realtà concrete.


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Pensiamo al tema del lavoro. Tema che dovrebbe essere la punta di diamante del dibattito politico-elettorale. Al di là delle tante polemiche, dei quadri foschi a livello occupazionale e della condizione giovanile, vorrei dare il mio plauso a tutte quelle persone (politici, esperti, manager, sindacalisti) che stanno dando una mano per modificare il quadro di regolazione dei rapporti di lavoro. Nel privato come nel pubblico. Anche nel pubblico. Concordo su questo con il ministro Fornero, secondo cui la riforma del mercato del lavoro dovrebbe essere estesa al pubblico impiego.


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In Italia è più difficile affrontare questi problemi. Per tanti motivi. Dati però alla mano, credo che non possiamo più limitarci alle sole buone intenzioni, nonostante la campagna elettorale già avviata. Tutti abbiamo cioè bisogno di verità, per capire tante cose. Mentre vedo, come per la richiesta di referendum sull’articolo 18 (più un simbolo che un dato normativo reale), che si preferisce guardare il futuro con lo sguardo rivolto al passato.

Che la riforma Fornero sia nata già vecchia, su tanti aspetti, anche questo mi pare un dato assodato. Il rilancio di un Paese, ancora troppo avvinghiato su cattive abitudini – quelle che hanno bruciato in pochi decenni la fatica dei nostri nonni producendo al contempo debiti e mancate opportunità per i nostri giovani in gamba -, implica coraggio e capacità di visione del futuro. Non so se questo serva a vincere nell’immediato le elezioni, ma di certo servirà a chi avrà la responsabilità di governare in positivo quei cambiamenti che servono per i nostri figli, i più penalizzati dal nostro immobilismo. Ovvio che, in questo quadro, il ricambio della classe dirigente che nell’ultimo ventennio ci ha governato non è solo un atto dovuto. Di più, una vera necessità. Però questo non basta. Servono idee e proposte. Oltre Monti, oltre i personalismi dei vari politici e gruppi politici.


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Idee e progettualità, a dire il vero, non mancano mai. Il problema è che sono state sacrificate sull’altare delle carriere personali e dei troppi equilibri politici, sindacali, imprenditoriali, culturali. Ciò che invece è mancato, ciò che non è avvenuto è il superamento di quelle pregiudiziali ideologiche, ricordava Marco Biagi poco prima di essere ucciso, che sono la fonte di quelle continue tensioni sociali che alla fine quasi azzerano tutti i tentativi riformatori.

Se la riforma Fornero ha rappresentato, forse per la prima volta da decenni, un tentativo di superamento di corporazioni e tabù, ciò che invece va messo in cantiere è un quadro di reale rilancio delle imprese e dei diritti dei lavoratori, diritti finalizzati al riconoscimento delle proprie qualità e competenze “sul campo”, di contro alle varie omologazioni derivanti da strutture contrattuali fisse, inchiodate a regole e procedure predefinite, rispetto alla dinamicità della realtà. Ha ragione Monti quando osserva da un lato che la riforma Fornero merita una valutazione, e quindi ha bisogno di tempo, ma ha altrettanta ragione quando, dall’altra, invita ad andare oltre allo stesso Statuto dei lavoratori.

E qual è il limite della riforma Fornero che dovrebbe diventare oggetto di seria analisi dei vari competitori politici in campagna elettorale? Quello di fondarsi sulla convinzione, non so quanto ragionevole, di poter ingabbiare la realtà multiforme del nostro vivere sociale e di vita dell’impresa. Ha ancora senso riconoscere un unico, o prevalente, schema concettuale, tutto formale, secondo cui il modello di lavoro è quello subordinato a tempo indeterminato? Quello schema che lo stesso Monti, con una battuta, ha definito tempo fa “noioso”?

Il mutato contesto socio-economico ha invece imposto un nuovo scenario, tant’è che non è più possibile parlare dei temi del nostro Paese come se fossimo all’interno di un regime autarchico, con porte e finestre chiuse sul mondo. Si può dunque combattere la precarietà fine a se stessa, fatta da forme di lavoro flessibile, coordinate e continuative o temporanee, solo ridimensionando, nella sostanza, con adeguati ammortizzatori sociali, le rigidità in uscita.

La riforma Fornero, offrendo una soluzione a metà tra flessibilità e rigidità, finisce per penalizzare le imprese e gli stessi lavoratori, quelli che, in gamba, aspirano di entrare con una certa stabilità nel mondo del lavoro. L’alternativa, in fondo, per i tanti giovani, non è il precariato, ma il lavoro nero. Sarebbe un vero fallimento, dunque.

Restano poi le questioni, come in Inghilterra edin Germania, della curva salariale, di recente sollevata dalla stessa Fornero, e della reale equiparazione tra pubblico e privato. Altri cantieri riformatori.


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