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Home » FINANZA E POLITICA/ Così l’euro diventa un veleno per l’economia

FINANZA E POLITICA/ Così l’euro diventa un veleno per l’economia

Alfonso Ruffo
Pubblicato 31 Ottobre 2016
Euro_SimboloR439

LaPresse

L’Europa negli ultimi vent’anni ha visto crescere al suo interno le disparità di crescita tra aree geografiche. Numeri che devono far riflettere su euro e Ue, spiega ALFONSO RUFFO

La tabella più inquietante è a pagina 4 della relazione che il vice presidente della Bei Dario Scannapieco svolge in occasione del convegno organizzato presso la Reggia di Caserta su come Investire nelle regioni meridionali. Che cosa si legge? Che nei venti anni che vanno dal 1996 al 2016 il Mezzogiorno cresce di uno striminzito 1,3%, il Centro Nord si attesta al 12,5% (9,8% la media nazionale), l’area dell’euro (18 paesi) arriva al 32,7%, l’Unione europea (28 paesi compresa la Gran Bretagna) sale al 38,8% e l’area non euro fa un salto del 59,8%.


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Guardando agli estremi di questa catena passiamo dal quasi 60% di crescita dei paesi che all’interno dell’Unione non hanno adottato l’euro al poco più dell’1% riservato al Sud Italia che dall’euro è penalizzato due volte in quanto debole parte di un Paese indebolito. 60 a 1: una voragine enorme, una distanza impossibile da pensare prim’ancora che da colmare. E che tiene come punti di collegamento – vale la pena di ricordare – il 9,8% della media nazionale, il 32,7% del sottoinsieme dei paesi che in Europa hanno deciso di affidarsi alla moneta comune, il 38,8% di tutti i paesi (euro e non euro) riuniti nell’Unione.


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Si assiste dunque a un crescendo di buona salute via via che ci si allontana dall’intossicazione da euro che alle regioni meridionali procura con evidenza un encefalogramma piatto, come se nell’ultimo ventennio fossero state ibernate e non avessero vissuto. Tutto questo mentre altri paesi con i quali l’Italia si trova a dialogare e scambiare all’interno della comune casa europea hanno goduto di un lungo e piacevole periodo di benessere che promette di continuare per la gioia di quelle popolazioni che dell’euro proprio non hanno voluto saperne.

Il Mezzogiorno in vent’anni è rimasto fermo, dunque, ma il Paese tutto si è mosso assai poco: appena un sesto delle più virtuose realtà che conservando valuta e mani libere sono riuscite a cogliere dal progetto comunitario tutti i vantaggi schivando con attenzione gli svantaggi che, infatti, hanno riservato a noi. Se questo è il dato con il quale fare i conti appare evidente che qualcosa non abbia funzionato e molto si debba fare per rimediare a questa catastrofe che ci allontana dai livelli di capacità produttiva e competitività per i quali si batte il presidente di Confindustria Boccia e che funzionano da spine nel fianco per il presidente del Consiglio Renzi.


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Tanto più che i sacrifici compiuti in termini economici e occupazionali (non è un caso se le maggiori perdite di posti di lavoro si siano sopportate qui) non sono compensati da una piena e gratificante solidarietà, visto che anche di fronte al dramma dei migranti l’Italia è lasciata pressoché sola a sbrigare faccende di cui andrebbe condiviso almeno l’onore.

Quest’Europa a troppe velocità non funziona. E sono i numeri a denunciarlo meglio di come potrebbe farlo qualsiasi discorso appassionato sui tempi belli di una volta. E l’euro è una medicina che bisogna imparare ad assumere nella modalità giusta perché possa svolgere gli effetti benefici per i quali è stata pensata. In caso contrario, può funzionare da veleno.


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