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Home » Esteri » Medio Oriente » ACCORDO USA-TALEBANI/ Washington ha perso una guerra e forse non sa perché

  • Medio Oriente
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ACCORDO USA-TALEBANI/ Washington ha perso una guerra e forse non sa perché

Leonardo Tirabassi
Pubblicato 3 Marzo 2020
attentato_kabul_afghanistan_isis_autobomba_lapresse_2018

Autobomba (LaPresse)

Accordo Usa-Talebani: quello che era l'obiettivo tutto politico oltre la sconfitta di Al Qaeda, e cioè un nuovo Afghanistan, libero e democratico, si è rivelato intrattabile

Venti anni di guerra sono tanti. Troppi, se così si può dire. Tanto più per una guerra come quella afghana senza vincitori né vinti, senza che gli Stati Uniti abbiano sconfitto e debellato i talebani, senza che sia avvenuto il contrario, che i seguaci del mullah Omar abbiano affossato il governo di Kabul né abbiano battuto sul campo gli americani e i loro alleati, compresi noi italiani.


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E sorge spontanea una domanda: ne valeva la pena? Quali erano gli obiettivi di questa lunghissima guerra? Perché è durata così a lungo?

Agli inizi degli anni settanta, con ancora in corso la guerra, un giovane analista statunitense, Michael Klare, intitolò un libro sul Vietnam Guerra senza fine ignaro che questa sarebbe stata una delle caratteristiche dei nuovi conflitti dopo la caduta del muro di Berlino.


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Guerre lunghissime, non dichiarate, dove si scontrano una molteplicità di attori, statali, milizie, eserciti popolari, per fini politici assolutamente diversi. Per definirle, la comunità militare, degli analisti, degli accademici, è ricorsa ad una terminologia la più varia per afferrarne la novità. Guerre asimmetriche, limitate, irregolari, ibride, conflitti tra la gente, guerre scelte contrapposte a quelle necessarie, categorie che sono andate a sovrapporsi a quelle già conosciute di guerriglia, guerra di popolo, guerra partigiana, terrorismo.

E la guerra in Afghanistan rispetta a pieno questa nuova situazione di conflitti bellici tra attori diversi, che usano metodi diversi per raggiungere scopi differenti.


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Gli Stati Uniti ed i loro alleati Nato intervengono a partire dal 7 ottobre 2001 per raggiungere due obiettivi, nascosti sotto l’etichetta “guerra al terrorismo”, espressione che crea confusione perché denota non un avversario politico da sconfiggere, ma un metodo di combattimento irregolare, non tradizionale, perché colpisce come obiettivo primario civili inermi. Il primo obiettivo è rappresentato da un lato dalla necessità di catturare il capo di Al Qaeda, Osama Bin Laden, mandante degli attentati dell’11 settembre, ospite dei talebani, dall’altra di smantellare i campi della stessa organizzazione. I talebani, al governo a Kabul dal 1998, non aderirono alle richieste Usa e così anche la loro cacciata divenne un obiettivo prioritario che si andava ad aggiungere ai precedenti.

Tutto chiaro? No, assolutamente. Perché a questo punto sorgeva immediatamente un problema già da allora inestricabile e che si è rivelato impossibile da risolvere sul campo militare. Chi sostituire ai fanatici chierici islamisti? In una realtà tribale come quella afghana, distrutta da vent’anni di guerra anche civile, aveva senso parlare di ricostruzione, per di più democratica, del paese? E chi erano veramente questi nemici che osavano difendere Bin Laden?

Innanzitutto quella realtà a metà strada tra “Corano, Kalashnikov e laptop” – titolo di un libro di Antonio Giustozzi – aveva combattuto per dieci anni, sconfiggendoli, i sovietici, uno dei due eserciti più forti al mondo e che operava, a differenza degli Stati Uniti nel Vietnam, a riflettori spenti, senza l’occhio critico dei mass-media, con le mani libere, non come ad esempio i francesi in Algeria. Oltre ad essere un partito di ispirazione religiosa, i seguaci del Mullah Omar – ecco il secondo punto – godevano anche dell’appoggio di una larga fetta della popolazione, ed in modo particolare all’interno delle tribù Pashtun, etnia di ben quaranta milioni di persone sparsa tra Afghanistan e Pakistan. In terzo luogo, i talebani potevano e possono contare, già dalla guerra contro i russi, sull’appoggio del Pakistan, in teoria amico degli americani, ma che ha condotto uno strano gioco, appoggiando i talebani in tutti i modi e con tutti i mezzi, basti pensare a dove è stato ucciso il 2 maggio del 2011 Bin Laden. Così i tre elementi – appoggio di parte della popolazione, governo centrale fragile, santuari esterni – si sono rilevati, ancora una volta, determinanti per la resistenza anti-occidentale.

Quello che era l’obiettivo tutto politico oltre la sconfitta di Al Qaeda, e cioè un nuovo Afghanistan, libero e democratico, si è rivelato intrattabile. E infatti i talebani sono ancora lì.

Speriamo solo che questa volta, per lo meno in parte, gli americani si dimostrino di saper vincere anche la pace oltre che la guerra.


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