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Home » Sanità, salute e benessere » DAL REPARTO COVID/ “Siamo uomini, non supereroi: le forze non ce le diamo da soli”

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DAL REPARTO COVID/ “Siamo uomini, non supereroi: le forze non ce le diamo da soli”

Pubblicato 22 Gennaio 2021 - Aggiornato alle ore 08:09
Reparto Covid (LaPresse)

Reparto Covid (LaPresse)

E' ormai un anno che il personale medico combatte la pandemia e “le energie stanno venendo meno”: dove trovare la forza per continuare questa battaglia?

C’è paura che si arrivi alla saturazione nelle terapie intensive. Dopo i progressi delle scorse settimane, il numero di regioni in cui si supera la soglia d’allerta su questo fronte torna a salire: la media nazionale si attesta infatti al 28%. La Lombardia è la regione più colpita per numero di tamponi positivi, superando quota 2 mila (+2.234): nel dettaglio in provincia di Milano sono 544 casi di cui 248 a Milano città, 223 a Varese, 436 a Brescia, 132 a Mantova. Seguono poi Emilia-Romagna (+1.320), Lazio (+1.303), Puglia (+1.275), Sicilia (+1.230), Campania (+1.215) e Veneto (+1.003).
A Varese, dove lavora Caterina Potenzoni, anestesista del reparto chirurgico presso l’Ospedale di Circolo Fondazione Macchi a Varese, ma spostata come tante colleghe nel reparto Covid, “la situazione non è satura – ci dice -, posti ce ne sono ancora, non siamo in situazione di emergenza”.


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Le terapie intensive sono ancora aperte? Lei è sempre trasferita al reparto Covid?

La situazione nelle terapie intensive è stabile. Posti ce ne sono ancora, non sono sature, non siamo in situazione di emergenza. Per quanto mi riguarda, la situazione non è cambiata da quando mi hanno trasferita la prima volta, siamo sempre impegnati nei reparti Covid. Stiamo lentamente cercando di tornare a quella che si potrebbe chiamare normalità, anche se non è normalità, nelle sale operatorie. Viviamo alla giornata, ci atteniamo a come evolvono le cose, che non sono prevedibili.


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Il carico di lavoro è sempre alto?

Direi proprio di sì.

L’arrivo dei vaccini per voi personale sanitario che impatto sta avendo? Rappresenta la luce in fondo al tunnel o c’è ancora un lungo cammino davanti?

E’ certamente una speranza. Bisogna coprire il maggior numero possibile di persone per arrivare alla cosiddetta immunità di gregge. Non si può comunque riporre tutta la speranza nel vaccino, vaccinarsi non vuol dire abbassare le difese in questo momento, tutt’altro.

Voi del personale sanitario siete stati tutti vaccinati?

Sì, la maggior parte, siamo una grande azienda, ma stiamo proseguendo nella campagna vaccinale.


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Non si sono verificati casi di rifiuto?

Che io sappia no. Mi risulta che abbiano aderito tutti.

Rispetto alla prima ondata non sono solo gli anziani a essere colpiti dal virus, ci sono anche persone di età più giovane?

E’ vero, abbiamo anche tante persone ricoverate che vanno dai 40 ai 50 anni. Sono persone comunque che hanno problematiche pregresse, ad esempio ipertensione, ma è vero che l’età media si è abbassata leggermente, rimanendo la popolazione anziana la più colpita.

Come reagiscono queste persone? Ci si è sempre nascosti dietro al fatto, dato per scontato, che il Covid colpisse solo gli anziani.


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Non è assolutamente vero, conosco molti colleghi che sono stati contagiati anche senza dover essere ricoverati in ospedale. Una amica si è ammalata perché il figlio ha contratto il virus, ma l’ha presa con tranquillità, senza disperarsi, si è detta che doveva accettarlo come la maggior parte delle cose che capitano nella vita.

Per voi in prima linea da ormai un anno, l’energia va al di là della vocazione professionale, è così? Dove trovate la forza per affrontare tutto questo?

Sicuramente occorre ridirsi ogni volta perché uno ha scelto questo lavoro. C’è bisogno di tornare all’essenziale, non sono più sufficienti le energie che stanno venendo meno, anzi sono già venute meno.


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E il pensiero del bisogno dell’altro che vi tiene in piedi?

Sì, anche se non basta questo. Ci vuole un cammino personale che ognuno a modo suo sta facendo. L’altro non è sufficiente, solo l’altro non basterebbe a tenerci in piedi.

In che senso?

Uno può rispondere al bisogno, però rischia di rimanerne schiacciato, perché tante volte la risposta non è adeguata o non è nei termini in cui se la aspettava. Ci si deve attaccare a qualcosa d’altro, uno deve sapere dove trovare le energie, il rapporto con l’altro non è esaustivo.

Potrebbe accadere che uno dica: non ce la faccio più?


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Assolutamente sì e non sarebbe condannabile una cosa del genere: siamo uomini, non siamo supereroi, come piaceva definirci all’inizio.

(Paolo Vites)

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